Regia di David O. Russell vedi scheda film
Non sempre è tutto oro quello che – in apparenza – luccica, che si presenta ai nastri di partenza con un pacchetto di credenziali alle quali è difficile non credere voltandogli le spalle di sana pianta. A parte che le fregature sono sempre in agguato, in alcune occasioni non te le aspetteresti proprio, ti colgono impreparato ad affrontare quella che doveva essere una festa e che invece si trasforma in una debacle.
Uno spiazzamento non prevedibile/calcolato che con Amsterdam si manifesta a chiare lettere, evidenziando un’impressionante sproporzione tra sforzi (produttivi e di presunto ingegno creativo) messi in campo e risultati effettivi, quelli che in un modo o nell’altro devono essere archiviati.
New York, 1933. Quando Elizabeth Meekins (Taylor Swift – Cats, The giver) vuole vederci chiaro sulla morte del padre, chiede aiuto al dottor Burt Berendsen (Christian Bale – Il cavaliere oscuro, L’uomo senza sonno), che collabora con Harold Woodman (John David Washington – BlacKkKlansman, Tenet), un avvocato che aveva conosciuto durante la Grande Guerra.
Ancora prima di farsi un’idea chiara su quanto accaduto, Elizabeth viene uccisa, mentre Burt e Harold sono accusati del suo omicidio.
I due sventurati cercano di divincolarsi in una situazione a dir poco complicata e ritrovano Valerie Voze (Margot Robbie – The wolf of Wall Street, C’era una volta a… Hollywood), con la quale avevano trascorso un periodo speciale, irripetibile e mai dimenticato ad Amsterdam.
Insieme scoprono di essere finiti dentro una macchinazione che, tra varie implicazioni, punta dritta ai piani alti, che cercheranno di sventare chiedendo l’intervento del generale Gil Dillenbeck (Robert De Niro – Taxi Driver, Toro scatenato), un uomo che gode di una stima trasversale.
Spetterà a loro fare in modo che la Storia non prenda la piega sbagliata.
Frutto di un lavoro di scrittura di durata cinquennale (già qui, ci sarebbe da diffidare sulle elaborazioni che richiedono così tanto tempo, con tutti gli aggiustamenti e le riscritture del caso), collaborando a più riprese con Christian Bale, Amsterdam vede il ritorno del celebrato David O. Russell (vedasi le numerose candidature ricevute con The fighter, Il lato positivo e American Hustle), tanto atteso (l’ultimo Joy era del 2015) quanto alla luce dei fatti incredibilmente deludente.
Si tratta di un film diversificato e scompigliato, che interfaccia realtà storica (il piano eversivo è reale) e parecchia finzione, che accavalla/percorre/accenna un genere dietro l’altro, viaggiando a zig zag ma con il freno a mano tirato, cambiando raramente marcia, per quanto ciò avvenga in sezioni generalmente determinanti (nei primi giri, con la nascita di amicizia e amori, e nello sprint finale, quando finalmente acquisisce un minimo di ritmo e percussione), che tuttavia non riescono a far dimenticare tutto il resto.
A tutti gli effetti, Amsterdam è fortemente penalizzato da uno script egocentrico, fumoso e smisurato (la regressione di David O. Russell è evidente, per certi versi sembra di rivedere i rigurgiti di I heart Huckabees), che richiama un assortimento ipertrofico, dando luogo a un miscuglio talvolta indecifrabile, fatto di troppe ronde, cosparso di elementi superflui, di dialoghi improduttivi e sguardi svagati, disquisizioni gratuite e un complessivo tasso di praticità ridotto ai minimi termini.
In questo modo, le nobili intenzioni, che vedono tre outsider combattere contro le discriminazioni (vedi la finestra aperta sull’impiego dei neri nell’esercito) e le macchinazioni antidemocratiche, con quei germi di ieri, di oggi e - con ogni probabilità anche peggiori - di domani, vanno al macero, con un cast all star che sa tanto di esibizione sterile.
Infatti, dalla folta schiera di non protagonisti, emerge completamente solo Robert De Niro, complice un bel ruolo che viene stranamente valorizzato come si deve, mentre la questione è significativamente diversa per il trio di protagonisti. Se John David Washington si adegua all’andazzo (in pratica, spalleggia il mattatore designato con professionalità) e Margot Robbie è sempre piena di vita e coinvolta, sostanzialmente piacevole, Christian Bale sfoggia la sua consueta arte del trasformismo, con istrionismi sopra le righe che si divorano tutto il resto.
In conclusione, Amsterdam smembra rapidamente le alte aspettative che lo anticipavano, con la quantità che surclassa brutalmente la qualità, con le ambizioni schiacciate dalla futilità e da un disordine sistemico, sfinendo la pazienza dell’ignaro spettatore, tanto da rimanere con un pugno di mosche in mano. Procede a singhiozzo, in costante affanno e in preda all’instabilità, si cerca un sacco di guai e spara a salve, giustificando un abnorme flop commerciale (la perdita stimata si aggira nell’ordine dei 100 milioni di dollari).
Tra crimini e intimità, scelte e bisogni, opacità e palesamenti, troppi stacchi e un fiato corto, bellezze periferiche lasciate al loro triste destino e pezzi da novanta fagocitati da una situazione compromessa alla fonte (tra gli altri, la fotografia organica di Emmanuel Lubezki e il pregevole lavoro fatto su costumi e scenografie), per uno sperpero di risorse da guinness dei primati, un passo falso da dimenticare velocemente.
Lambiccato e dispersivo, episodico e pretenzioso.
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