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Eraserhead

Regia di David Lynch vedi scheda film

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La recensione su Eraserhead

di yume
8 stelle

Ottantanove minuti di incubo straziante ma poi una musichetta digestiva accompagnerà i titoli di coda, basta resistere, dopo l’incubo torna la luce, non importa se artificiale, la ragione metterà ordine, e pazienza se la polvere finirà sotto il tappeto

Locandina originale

Eraserhead (1977): Locandina originale

Cominciamo col dire che quest’anno Eraserhead compie 40 anni e, giunto nel mezzo del cammino di sua vita, questo incubo di David Lynch (il primo, altri ne seguiranno, ma come sempre il buon giorno si vede dal mattino) dopo ottimo restauro si prepara per un lungo cammino che, ne siamo certi, sarà altrettanto cosparso di allori.

O anche più.

Infatti, come capita di frequente a grandi opere che vivono a lungo misconosciute perché in anticipo sui tempi, anche quest’opera prima di un genio eccentrico come Lynch ha avuto bisogno di un lungo periodo d’incubazione.

Eraserhead nasce in America nel 1977.

Nelle gallerie d’arte di New York e nei locali underground più alla moda era facile in quegli anni imbattersi in esperimenti di video-arte, cortometraggi a metà fra cinema e arti visive, immagini in movimento, quadri animati, sperimentalismi spesso spettacolari ma soprattutto pionieristici nell’utilizzo sincronico di linguaggi e tecniche.

Decretata una volta per tutte la fine delle barriere, nascevano opere totali che travalicavano ogni genere, visibili e interrogabili da ogni angolazione, ma soprattutto indefinibili, figlie dei lunghi decenni precedenti in cui menti folli e geniali avevano messo a punto forme e linguaggi che avrebbero rivoluzionato il mondo dell’arte, e non solo.I linguaggi, tutti, ne uscirono svecchiati, si misero al passo con i tempi della storia, nulla fu più come prima e il cinema non mancò all’appuntamento.

 

Il giovane Lynch, classe 1946, aveva l’età giusta e viveva nel posto giusto.

Da corto indipendente nato fra amici Eraserhead divenne un lungometraggio dalla gestazione fortemente travagliata, cinque o forse sei anni, con il produttore che gli tagliò i fondi quando si accorse che da corto stava diventando lungo e il regista stesso che si mise a girare un altro film. Nel frattempo, piccola curiosità, pare che il protagonista Henry Spencer (Jack Nance), che qualche burlone geniale ha soprannominato “l’Elvis dell’incomunicabilità”, non abbia modificato quel famoso taglio di capelli fino alla fine delle riprese. Aggiungiamo, ad altrettanto piccola postilla, che Lynch fu precursore anche in questo, basta guardare le ultime mode in fatto di capigliature maschili.

Al di là di tutte le traversie, ad ogni modo il film entrò a pieno titolo nel circuito delle proiezioni di mezzanotte a New York e sappiamo anche quanto fosse amato da Kubrick.

E dunque cosa dire che non sia stato già detto su Eraserhead? L’aggettivazione è ormai insufficiente e soprattutto inadeguata nel rincorrere le immagini che parlano da sole.

L’esperienza visiva resta comunque insostituibile, vedere Eraserhead è come rincorrere un sogno, al mattino, appena svegli. Più che un sogno un incubo, più facile da ricordare perché l’angoscia si attacca alla pelle e aiuta la memoria mentre un normale sogno sfuma come foschia mattutina. Resta però l’impossibilità di raccontarlo, ci rendiamo subito conto che l’impresa è disperata quando tentiamo di circoscriverlo con parole a qualche malcapitato.

Qualche storta sillaba e secca come un ramo” diceva MontaleQuesto noi possiamo dirti ”.

 

E quella storta sillaba si fa presto a dirla, la sinossi è questa:

in un opaco bianco e nero, sempre più nero e meno bianco, Henry vive in una stanza ammobiliata di una degradata periferia urbana. Una pianta scarna prossima alla morte è l’unico tocco gentile nell’arredo. Il giovane ben paffuto dagli occhi chiari sempre sbarrati, se dalla paura o dalla sorpresa non è facile dirlo (il ciuffo ritto in testa farebbe propendere per la prima ipotesi) va a cena a casa della fidanzata (da rimpiangere il contesto della famiglia Adams) e scopre di essere padre di un figlio che sta fra un feto ultraterrestre e un verme viscido e tremolante. Come se non bastasse, il piccolo si ammala e comincia ad emanare urla strazianti (esistono studi per spiegare perché il pianto infantile sia così insopportabile) e la madre Mary, forse perché in preda a depressione post partum (Lynch ci perdoni per questo tentativo di spiegazione) se ne va di casa, lasciando Henry solo col feto che, incapace di accudire, distrugge.

No, non uccide, il povero Hernry non è un assassino, anche se il pianto del feto farebbe diventare assassino un santo! Lui prende le forbici e taglia le fasce del piccolo. Naturalmente quello che c’è dentro quelle fasce non va svelato, pena lo spoiler.

 

Eraserhead sfida ogni convenzione, aspettativa, tentativo di comprensione.

E’ quello che Lynch è riuscito a dire per la prima volta a proposito di contenuti della mente.

Ipnotico sì, lo è, si continua a fissare inebetiti lo schermo mentre procede questa sardonica meditazione sull’essere umano, sul tempo e lo spazio, sulla vita e la morte, umoristico nella sua assurdità, agghiacciante nella sua nudità totale, definitivo nello svisceramento del nostro marasma interiore che accuratamente rivestiamo di begli abitini cuciti dal Super-Io (ricordiamo il praticello fiorito di Blue velvet con le formiche rosse sotto la staccionata bianca?)

.

 

 

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