Regia di David Lynch vedi scheda film
Nella storia del cinema i geni sono pochi e rari: Fellini, Kubrick, Charlie Chaplin…probabilmente David Lynch. I suoi film e il suo stile ne sono una dimostrazione plausibile. Semplicemente perché non assomigliano a nessun altro cineasta. Nel 1977 firma il suo primo lungometraggio, autoprodotto e girato con numerose interruzioni nell’arco di cinque anni. ERASERHEAD-LA MENTE CHE CANCELLA, che in inglese significa letteralmente testa a forma di matita che cancella. Proprio come quella del protagonista Henry Spencer che all’inizio vediamo fluttuare orizzontalmente in dissolvenza. Mentre un uomo dalla faccia butterata, affacciato in una finestra rivolta verso il pianeta della vicenda, aziona una leva lasciando cadere su una pozza un cordone ombelicale. Dal liquido emerge una luce che invade lo schermo. Henry, con i capelli all’insù (una costante dei personaggi lynchiani), appare in uno scenario industriale e urbano fatto di case diroccate, pozzanghere, rumori di macchine e sirene. Giunto nel lugubre caseggiato in cui vive, prende l’ascensore per raggiungere il suo appartamento. La dirimpettaia lo informa che una certa Mary ha chiamato per invitarlo a cena. Mary, X di cognome è la fidanzata timida e disturbata. Recatosi da lei, conosce la madre curiosa e il padre logorroico idraulico. Durante la cena, la famiglia di Mary si rivela ancora più allucinata e bizzarra del previsto. Mentre Henry taglia un pollo fuoriesce un liquido scuro (il film è in bianco e nero). Il signor X dopo aver parlato ininterrottamente si imbambola, Mary fugge in lacrime e la madre chiama il basito Henry a colloquio. Vuole sapere se ha avuto rapporti sessuali con la figlia. Infatti i due hanno avuto un bambino o meglio un ripugnante bambino-mostro. Più tardi, ritroviamo Henry e Mary nella stanza del primo, con il figlioletto steso su un comò con la parte inferiore fasciata. La madre tenta inutilmente di imboccarlo. Il piccolo, dalla testolina d’agnello, piange e irrita Mary, la quale a un certo punto pianta entrambi per ritornarsene dai genitori. D’ora in poi Henry alterna fasi di sogno a momenti in cui accudisce il piccolo mostricciatolo. Sogna, per esempio, nel radiatore del riscaldamento un teatro in miniatura in cui una donna dalle gote gonfie, balla, sorride, schiaccia cordoni ombelicali che piovono dall’alto. Mary riappare e da sotto le coperte produce creature-feti che H. lancia contro il muro. Altre fasi reali e oniriche si schiudono agli occhi del protagonista. Una in particolare: nel teatrino immaginario egli viene decapitato e la sua testa finisce nel quartiere. Un ragazzino la usa come pallone e poi la vende in una fabbrica, ne ricavano la gomma che sta all’estremità delle matite. Scosso dallo sconvolgente incubo e dal lamento stavolta ironico del figlio, decide di aprirgli le bende con una forbice. Schifato dalla visione trafigge il cuoricino dello strano essere, dal quale si riversa una materia liquida inesauribile che si trasforma in una testa gigante. Questa distrugge la lampada che illumina la stanza e il pianeta si frantuma. L’uomo dal volto orrendo tenta di frenare con le leve l’esplosione, ma il suono si fa assordante. Henry e la donna del termosifone (un riferimento materno?) si abbracciano e un lampo accecante e bianco interrompe il suono e l’immagine. Una musichetta lieve e accattivante parte sui titoli di coda. L’opera prima dello statunitense Lynch è un incubo fantascientifico dalle striature horror. Assolutamente inedite. Dentro c’è tutto il suo cinema futuro: dalle atmosfere ai dettagli maniacali per il sonoro e per i particolari scenici e filmici; la rappresentazione deformata della famiglia americana e dei loro ambienti domestici; i sogni e gli incubi (realizzati dallo stesso autore, come faceva Fellini) messi in scena in maniera stupefacente e inquietante; l’ossessione per i teatrini fatiscenti, le canzoncine e le musichette che spezzano tensioni e offrono parentesi di svago e nostalgia per i tempi perduti. Nascere, morire e mille altre cose. A volte cercare spiegazioni logiche e significati reconditi nei suoi capolavori è un’impresa sovrumana e spesso inutile. La sua genialità, sicuramente, sta in questo. Visionario e astratto. Basterebbe la serie, divenuta cult, TWIN PEAKS, costruita in funzione televisiva e allo stesso tempo antitelevisiva (misteriosa e incomprensibile), per annoverarlo tra i geni della decima musa e dell’arte visiva. Essendo Lynch anche un affermato pittore e fotografo.
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