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La ciénaga

Regia di Lucrecia Martel vedi scheda film

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La recensione su La ciénaga

di Peppe Comune
8 stelle

Nella tenuta della Mandragora, una piccola villa con piscina situata nel nord ovest dell'Argentina, una zona montuosa circondata da una ricca vegetazione, sta trascorrendo le vacanze estive (che lì corrisponde al mese di febbraio) una famiglia della buona borghesia cittadina. Alla testa della famiglia ci sono Mecha (Graciela Borges), una cinquantenne dedita all'alcol che sembra ormai votata alla più assoluta inazione, e Gregorio (Martìn Adjemiàn),  il marito, che sembra avere come unica preoccupazione quella di tingersi i capelli. Con loro ci sono i quattro figli adolescenti, diversamente irrequieti ma tutti ugualmente assorbiti dall’afa opprimente che avvolge le noiose giornate estive. Più del figlio minore (Fabio Villafante) che se ne va a caccia col fucile nonostante abbia già perso un occhio, e di quello più grande (Juan Crus Bordeu) che convive con una donna della stessa età della madre, a preoccupare principalmente i due genitori è Isabel (Andrea Lopez), la cameriera indios sospettata di rubargli tutti gli asciugamani. In seguito ad un lieve incidente capitato a Mecha, a raggiungere la famiglia alla tenuta arriva Tali (Mercedes Moran), la cugina della donna, in compagnia del marito (Franco Veneranda). Anche loro hanno quattro figli al seguito, tutti più piccoli però. Sono di una condizione sociale più modesta, ma anche loro sembrano alle prese con un palpabile stato di irrequietezza. Progettano un non ben precisato viaggio in Bolivia che però non fanno mai. Alla tenuta della Mandragora fa molto caldo ma la piscina è inutilizzabile a causa di un guasto alla pompa idrica. Intanto è diventata una vasca piena d'acqua putrida e puzzolente. 

 

 

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"La ciénaga" - Scena

 

Capita qualche volta che degli autori di cinema facciano ciò che si può definire, senza troppi giri di parole, un debutto col botto. Perché, molto semplicemente, al primo film dimostrano una maturità già spiccata nell’utilizzo del mezzo cinematografico. Uno di questi casi è rappresentato dall'esordio alla regia dell’argentina Lucrecia Martel, che con “La ciénaga fa un'opera che emerge per il peso visivo conferito ai suoi contenuti speculativi indipendentemente dalla sua dichiarata evanescenza narrativa. “La ciénaga” è infatti un film di osservazione, che mira ad attenzionare il vissuto di un microcosmo familiare come se si trattasse di un oggetto sociale da dover indagare fino in fondo. 

Si racconta di accaldate giornate estive che trascorrono sempre uguali, vissute in un’isolata casa di campagna dove non succede nulla di particolarmente importante, se non che l'afa opprimente sembra si sia impossessata di ogni movimento articolare senziente. Eppure emerge uno stato di malessere evidente in ogni personaggio di questa storia, merito della regia, che si intrufola nei ritagli di ogni esistenza portandone a galla scompensi emotivi e asperità caratteriali. Ciò che se ne ricava è un ritratto impietoso della buona borghesia argentina la quale, quasi alla maniera di un maestro indiscusso di questo tipo di analisi come Louis Bunuel, viene rappresentata senza veli, quando è intenta a girare a vuoto intorno a giornate e azioni ordinarie, con l'improduttività dei suoi gesti che resiste alla sua stessa vacuità. 

“La ciénaga” ha una sostanza narrativa molto materica, fatta di acqua terra e calura che nel loro inevitabile incontrarsi danno forma a zone paludose (la “ciénaga del titolo significa appunto palude) che nel loro essere visivamente percepibili tendono ad identificare le azioni dei personaggi con l'immobilismo che li tiene piantati sempre al punto di partenza. Si è all'aria aperta, ma si avverte un'atmosfera claustrofofica. Si è a contatto con la verginale pulizia della foresta pluviale che circonda la Mandragora, ma si sente nitido l'odore dello sporco. Detto altrimenti, “La ciénaga” è un film di corpi e fango che mischiano le rispettive sostanze materiche, di piccole e grandi cicatrici che bruciano la carne e di sporco che penetra nelle ossa. Sotto un cielo che minaccia sempre pioggia senza mai mitigare il peso opprimente della calura, dei corpi sudaticci si affannano a trovare una strada ai loro passi sbandati. Corpi viziati dal sesso, corpi ammalati di vanità, corpi avvinti dall’alcool, corpi colmi di gratitudine, corpi che reclamano ascolto. Corpi liquefatti dal sudore perché resi schiavi dalle loro paralisi interiori. In tutto questo, lontana dalle distrazioni degli adulti sempre occupati a fare altro, l’innocente vitalità dei più piccoli e costantemente messa in allerta dalla prossimità dei pericoli più vari.  

Ecco, l'autrice argentina usa in una maniera molto fisica e diretta la macchina da presa, limitandosi ad indagare un interno di famiglia mentre è alle prese con le sue lnconcludenze emotive. Facendoci vedere fatti che riguardano la vaghezza delle loro azioni, senza orientarli attraverso dialoghi chiarificatori. Per tale scopo, seppur in maniera molto discreta, Lucrecia Martel usa degli espedienti narrativi che servono a spiegare anche in forma simbolica il senso del film. Si prenda la piscina piena di acqua putrida, un'offesa evidente alle più elementari regole dell'igiene. Eppure, i padroni di casa invitano gente e tutti insieme banchettano a bordo vasca incuranti della melma che si sta formando in superficie. Siedono comodamente sulle sdraio a prendere il sole e sorseggiano cocktail gustosi. Il contrasto è evidente, ma la forma consistente nella presenza di attempati borghesi intenti a fare ciò che si aspetti che facciano dei borghesi a bordo di una piscina, vale più della sostanza di una piscina ridotta a pantano a causa della perdurante l’incuria dei proprietari. Oppure, si prenda il fatto che lungo tutta la narrazione filmica ogni tanto compaiono le immagini di un luogo poco lontano in cui si dice sia comparsa la Madonna. Le notizie dei telegiornali sull’accaduto vengono seguite dalla famiglia con un atteggiamento che oscilla tra l'indifferenza, l'incredulità e la curiosità. In ogni caso, il sacro e il profano si confondono ed entrambi si fanno specchio di un'umanità allo sbando inconsapevolmente alla ricerca di solidi punti di ancoraggio. 

La vacuità dei pensieri, l'immobilismo dei corpi, l'evanescenza delle azioni, le distrazioni degli occhi.  Lucrezia Martel filma la consistenza del vuoto in un interno di famiglia facendocene avvertite tutta la sua cancrenosa improduttività. Esordio molto convincente. 

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