Regia di Alice Diop vedi scheda film
CIAK MI GIRANO LE CRITICHE DI DIOMEDE917: SAINT OMER
Alice Diop è una documentarista francese di origini senegalesi che ha sempre raccontato nei suoi lavori la condizioni dello straniero all’interno delle Banlieu parigine.
Il grande salto al mondo del cinema è di quello che fa il botto. Il suo Saint Omer a Venezia si è portato a casa il Gran Premio Speciale della Giuria presieduta da una donna cazzuta come Julienne Moore e il premio Opera Prima nonché rappresenta la Francia ai prossimi Oscar.
Per la sua opera d’esordio decide di raccontare la storia vera del Processo di Laurence Coly , un caso del 2016 che la toccò molto dal punto di vista umano.
Usa un proprio alter ego che è Rama, una docente universitaria e scrittrice che con il pretesto della vicenda giudiziaria vuole raccontare e modernizzare il mito di Medea.
Non è semplice, partendo da un toccante caso di infanticidio, parlare delle difficoltà di essere madre oggi. Del cambiamento radicale di un ruolo che è in forte evoluzione in questi anni e che viene messo a confronto con la mentalità e la realtà che il fenomeno dell’immigrazione ci pone.
Alice Diop regista decide di raccontare questo omicidio compiuto da questa madre nei confronti della propria figlia di quindici mesi affidandola al mare, un’immagine che ricorda i tanti bambini emersi nelle varie spiagge delle coste europee, come fosse una grande tragedia teatrale.
Ognuno ha un proprio ruolo e un proprio spazio all’interno del tribunale, la regista fissa i loro volti sulla telecamera. Gli interventi sono dei freddi e interminabili monologhi che evidenziano ancora di più la drammaticità della storia senza scadere nel facile pietismo e nella retorica.
I primi piani dei protagonisti del processo sono intervallati dai primi piani silenti di Rama, che piano piano vive in prima persona il dramma dell’imputata. Il fatto che sia anche lei incinta e che vive una profonda conflittualità con la propria madre adesso malata la rende più simile e quasi complice con la infanticida.
L’elemento che mette a dura prova anche lo spettatore è la rappresentazione della stessa Laurence Coly.
Lei non è la classica migrante che vediamo arrivare direttamente dai barconi. Laurence è una donna molta colta, che parla molto bene. È una donna che è molto consapevole del gesto che ha fatto ed affronta sia il giudice che il pubblico ministero con uno sguardo e una fermezza che mette paura e suggestione.
Col passare del processo iniziamo ad empatizzare con questa donna autrice di un gesto deplorevole, ma al tempo stesso tradita e abbandonata dagli affetti a lei vicini.
E sempre col passare del processo il punto di vista cambia e viene portato fuori dall’aula da Rama. Se lo porta in albergo, confronta la sua paura della maternità con quello di Laurence. Il suo rapporto conflittuale con la famiglia con quello di Laurence. L’amore per il suo compagno e futuro padre con quello codardo di un uomo avanti con l’età che si è quasi approfittato delle debolezze di una ragazza che non sapesse che cosa volesse dire la parola amore.
Alice Diop non da risposte, non sappiano realmente come andrà a finire il processo.
Ci lascia con i nostri dubbi e le molte domande affidandosi alle immagini della Medea di Pasolini e al monologo finale dell’avvocato di Laurence che per far capire la complessità del genere femminile lo paragona ad una Chimera, una figura composta da tanti forse troppi animali con diverse personalità.
Una figura che è diventata Laurence dai tanti e troppi dolori che le ha riservato la vita.
Voto 7,5
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