Regia di Alice Diop vedi scheda film
Venezia 79. Mostra Internazionale d'Arte Cinematografica.
Il 2022 verrà probabilmente ricordato dalla Biennale come l'anno del documentario. La giuria del concorso principale ha assegnato al genere il ruolo di protagonista della settantanovesima edizione della Mostra del Cinema premiando "All the beauty and the bloodshed" di Laura Poitras con la massima onorificenza e distribuendo altri riconoscimenti importanti a film segnati, in qualche modo, dal genere. "Gli orsi non esistono", la ricostruzione di un backstage cinematografico in cui si muoveva il regista Jafar Panahi nel tentativo di condurre in porto la sua ultima opera, ha ottenuto il Premio Speciale della Giuria mentre "Saint Omer" della regista Alice Diop ha portato in Francia il Leone d'Argento - Gran Premio della Giuria. Alice Diop ha vinto, inoltre, il Premio Opera Prima Luigi De Laurentiis assegnato dalla giuria di Michelangelo Frammartino. Né gli "Orsi" di Panahi né "Saint Omer' possono, obiettivamente, classificarsi tra i documentari, essendo entrambi opere di fiction ma dal genere hanno attinto alcuni tratti distintivi come il realismo rurale del cinema iraniano, nel primo caso, e la rappresentazione scarna ed asciutta della modernità, nel secondo.
Diop, in particolare, proviene dal documentario, strumento attraverso il quale ha raccontato la società francese, quella delle banlieue in particolar modo. Perciò Saint Omer, con il quale la regista francese si cimenta per la prima volta nella fiction, risente, nel bene e nel male, del background della sua autrice.
Saint Omer è un film di grande sostanza ma povero di orpelli. Racconta un processo, come lo farebbe una telecamera posta nell'aula di un tribunale allo scopo di documentare l'andamento dei lavori ed immortalare il dibattimento per questioni prettamente legali. La regista di origine senegalese affronta il genere giudiziario negando ogni forma di spettacolarizzazione. Indugia con la telecamera sull'imputata per lunghi tratti in modo da cogliere le sfumature del volto e la comunicazione non verbale, rinuncia alle suggestioni fuorvianti del commento musicale, mantiene fuori campo i membri della Corte, riduce gli stacchi di montaggio e i controcampi per mantenere focalizzata l'attenzione su pochi aspetti del processo al cui centro vi è Laurence Coly, la giovane madre accusata di aver ucciso la figlia di pochi mesi. Nel suo intento di rendere credibile i fatti e studiare la psicologia sfaccettata del personaggio Diop si sofferma su particolari insignificanti come la nomina dei giurati, la cui sequenza rallenta il ritmo conferendo la sensazione di essere in una vera aula di tribunale dove i tempi della burocrazia non seguono quelli della suspance cinematografica e costringono l'imputata ad un'attesa snervante.
Al centro della vicenda vi è una donna africana, colta, benestante, con le normali ferite di una vita borghese che risponde alle domande poste dagli avvocati. Dall’altra parte della sbarra vi è un’altra donna africana, di diversa estrazione sociale, probabilmente nata nel continente nero o, forse, figlia di immigrati di prima generazione. Rama ha studiato ricavandosi un ruolo di prestigio nella società francese, è un’insegnante universitaria ed è nell’aula del tribunale di Saint Omer per capire le oscure motivazioni dell’infanticidio e scrivere un libro.
È interessante notare come Alice Diop non abbia scelto due donne qualsiasi. Laurence e Rama non sono clandestine o prostitute, non sono penalizzate dalla mancanza di istruzione o da una situazione economica precaria. Le due donne occupano posizioni antitetiche ma non corrispondono all’identikit delle straniere alla ricerca di un passaporto, di un lavoro o vittime dello sfruttamento. Un elemento di originalità nella rappresentazione dell’immigrazione pervade, dunque, la narrazione di questo processo alla maternità nel quale vengono raccontate le motivazioni di un gesto terribile da parte di una madre dal passato agiato e dal presente nebuloso. Se la vita di Laurance viene scandagliata in lungo e in largo non così avviene per Rama. La regista offre pochi indizi circa l’origine della famiglia e lascia sin tropo spesso allo spettatore il compito di rimpolpare un terreno fitto di omissioni. Per questo motivo il sacco a pelo steso sul letto dell’hotel comunica molto più di un comportamento ossessivo quanto, piuttosto, la ricerca di una sicurezza infantile negata, quella di un giaciglio sicuro e caldo ove passare la notte, giusto per fare l’esempio più lapalissiano. Il percorso di Rama è opposto a quello dell’altra donna. Probabilmente nata nella povertà ha raggiunto con fatica e sacrifici il ruolo che occupa. Forse per questo il suo desiderio di maternità sembra sopraffatto dalla paura di perdere quanto costruito. La maternità è l’oggetto di discussione, più ancora che il crimine. Vi è la maternità annegata nelle onde del mare e quella nascosta e soffocata dentro di sé per paura del cambiamento. In ogni caso una maternità complessa, complicata, tutt’altro che idilliaca ma fortemente reale, diversa da quella dovuta che non viene messa in discussione nell’ambiente di provenienza della regista.
Alle diverse declinazioni della maternità Alice Diop dedica una lunga arringa pronunciata dall'avvocato della difesa. Non manca di fascino l'estremo tentativo di raddrizzare l'idea di cattiva madre che si è ritagliata la protagonista. Le cattive madre sono sempre peggiori dei cattivi padri per cui una diligente arringa finale non può bastare per difendere l'indifendibile. È necessario un discorso che faccia breccia nella giuria e rimanga ancorato nell'inconscio come le cellule fetali che migrano attraverso la placenta nel corpo della madre e vi rimangono per molto tempo per garantire al nascituro le condizioni di partenza migliori per la sopravvivenza. Laurence Coly è una donna algida, a volte egoista, probabilmente scaltra. Oppure è semplicemente provata dalla depressione post parto e da un compagno poco amorevole? La giuria avrà il suo da fare per districarsi in una rete di indizi contrastanti e ingannevoli. L'unica cosa certa è la colpevolezza ma poco importa il numero di anni votati a depurare, dietro le sbarre, la macchia del reato. Per quanto Laurance si sforzi di razionalizzare le rimarrà dentro la chimera fiammeggiante del rimorso.
Volendo sintetizzare direi che Saint Omer sia un'opera prima potenzialmente importante per la carriera di Diop. Il processo è uno strumento per raccontare la donna da un punto di vista singolare. Il contributo artistico della regista c'è ed è evidente nella sobrietà che si è imposta lungo le due ore della narrazione. Pur avendo una durata importante il film mi sembra troppo sbilanciato a favore della madre infanticida. I percorsi narrativi intorno alla scrittrice, ai suoi rapporti familiari e al marito sono appena abbozzati. I silenzi di Rama lasciano dei vuoti incolmabili attorno alla sua figura. Avrebbe meritato di più il personaggio di Rama ma così non è stato.
Saint Omer non è un film facile, lento, volutamente inconcluso. A mio avviso piacerà più alla critica che agli spettatori. Quest'ultimi dovranno accettare gli stilemi di un cinema che ha tratto dal documentario buona parte della sua aurea politica e civile per avvicinarsi ad una storia che suscita disprezzo e che invece richiede la giusta distanza dai fatti e l'assenza di pregiudizio, quello che solo una macchina da presa sembra in grado di garantire.
Non mi ha scaldato il cuore ma non è detto faccia sugli altri il medesimo effetto.
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