Regia di Ken Loach vedi scheda film
Ken Loach ha ricevuto una messe invidiabile di premi, in special modo dai grandi festival che hanno riconosciuto nei suoi film gli eccellenti risultati artistici di una vita dedicata al cinema.
Palme che non si lasciano trastullare dalla brezza, leoni che non volano ed orsi impietriti su un piedistallo: il regista di Nuneaton ha ricevuto tutto ciò durante cerimonie ossequiose che in fondo poco lo rappresentano. Ken Loach è un leone che ruggisce in un mondo sordo alle urla dei poveri, un orso che si nasconde fino al momento di ergersi a difesa dei deboli, un rametto di palma che, all'occorrenza, si tramuta in verga con cui bastonare gli oppressori. Ken Loach non è, dunque, uomo da statuette ma da strette di mano e attestati di stima poiché, in fondo, cosi è il cinema civile, ora drammatico ora tragicomico, che egli porta avanti da decenni.
Ed eccoci allora al più genuino e commovente degli omaggi che potesse mai ricevere il maestro, l'equivalente di una pacca sulla spalla, di un motto di incoraggiamento, quello tributato dallo sceneggiatore Paul Laverty che non gli ha messo in mano una fredda scultura di metallo bensì una storia che evoca trent'anni di stima e ammirazione. I due si conobbero nel lontano 1996 quando Laverty scrisse "Carla's Song" che nasceva dalla sua esperienza di attivista umanitario in Nicaragua. Da allora i due non si sono più separati ed ogni film di Loach porta la firma di Laverty in fase di scrittura, "The Old Oak" compreso, naturalmente. È in quest'ultimo film, presentato durante la scorsa edizione del Festival di Cannes, che l'avvocato e scrittore nato a Calcutta celebra, per l'appunto, il suo pigmalione con un vero e proprio "manifesto", un'insegna che campeggia sulle vetrine di un pub e porta il nome "The Old Oak".
Kenneth Charles Loach è la vecchia quercia del titolo, un uomo più vicino ai novanta che agli ottanta, che ha speso la vita a promuovere, attraverso la lente deformante della macchina da presa, i diritti dei lavoratori. Se si osserva attentamente l'insegna si vede un pezzo di antiquariato logoro e démodé. L'ultima lettera sta appesa per miracolo cadendo, costantemente, in avanti attratta dalla gravità che la vecchiaia rende più ostile. Nonostante l'aspetto malmesso il nome del locale impreziosisce le vetrine malconce chiamando ancora a sé gli avventori.
Ken Loach è come l'insegna. C'è e chiama i fedeli nella speranza di condividere gli ideali vetusti di fratellanza e giustizia sociale che gli sono cari. Forse il cinema è un mezzo di comunicazione obsoleto, al pari del vecchio pub di TJ Ballantyne che non vede una mano di bianco ed una degna manutenzione da almeno trent'anni, ma nelle mani di Ken il Rosso il cinema può ancora dire la sua come il pub, collante di una comunità polarizzata e disgregata. Forse il cinema civile di Loach potrebbe tramontare da un momento all'altro, come molte cassandre predicono da lustri, eppure sopravvive alle mode e alle congiunzioni, granitico, come il logoro ritrovo del paese o la vecchia quercia che affonda, fiera, le radici nel terreno. Forse il cinema di Loach rinascerà dopo la sua dipartita nei discepoli che l'hanno emulato come un edificio eretto nuovamente dalle ceneri della stupidità e della cattiveria. E forse il beneamato regista britannico non è solo la vecchia quercia, l'insegna arrugginita che chiama a raccolta. Il maestro assomiglia un po' al protagonista della storia di Laverty.
Il TJ Ballantyne che spina la birra dietro al logoro bancone è un uomo maturo che, ad un certo punto della vita, ha gettato la spugna ma si è rimesso a lottare quando credeva di non averne più la forza. Come il maestro che affermava qualche anno fa di volersi ritirare salvo poi tornare sui propri passi con un'urgenza ancor maggiore di raccontare la vita dei reietti. Ballantyne esce dal letargo e si spende nell'accoglienza e nella solidarietà mettendo il suo locale al centro di tutto trasformandolo in un cinema di sofferte emozioni, scontri tra amici e perdite dolorose. Il cinema di Loach, arcigno, rabbioso e accogliente è nella cucina rabberciata dove uomini e donne di buona volontà condividono una mensa.
Ai miei occhi questo film è l'omaggio di uno scrittore al suo regista. La vedo così. "The Old Oak" racconta l'amicizia tra un poveraccio ed una spigliata profuga siriana nell'Inghilterra della provincia, quella attaccata al collo della bottiglia e ai ricordi sbiaditi e brucianti della lotta operaia. Un'Inghilterra reclinata su se stessa, incapace di andare avanti e sin troppo piagnucolona, mi verrebbe da aggiungere.
"The Old Oak" pecca un tantino di ingenuità o di puerile ottimismo nel finale doloroso. Eccede, forse, nella rappresentazione dei sentimenti, sia quelli buoni di chi si spende nell'integrazione di due mondi lontani, sia quelli crudeli di chi rema contro. Ma c'è quel tocco di speranza incompiuta che basta a renderlo onesto e ben piantato per terra. È un albero robusto, un cane fedele, un'amicizia pura. Più che sufficiente per sentirne di già la mancanza.
Cineforum Leoniceno - Cinema Eliseo - Lonigo (VI)
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