Regia di Ken Loach vedi scheda film
Presentato a Cannes, quest’anno, in concorso.
Ha ottantasei anni Ken Loach, ma, come il protagonista del suo ultimo film, non ha perso la la volontà di dedicarsi con tutta la sua energia, alla denuncia delle ingiustizie di questo mondo, animato da quell’ ottimismo della volontà che non lo abbandona mai e che gli permette di tener vivo, nella durissima realtà sociale e politica del presente, quel filo di speranza di cui tutti sentiamo la necessità.
A Marton, nella contea di Durham non lontana dalla Scozia, é rimasto l’unico pub aperto dell’intera Inghilterra nord orientale.
La sua insegna, “The old Oak” è quasi l’emblema della tenace volontà del suo proprietario, TJ Ballantine (Dave Turner), di mantener viva la memoria della solidarietà sindacale che aveva un tempo affratellato i minatori di una zona ricca di miniere carbonifere, sfruttate come fonti di energia, e ora abbandonate per volontà di Margareth Tatcher, che aveva in tal modo disgregato l’antica solidarietà, disperdendo e abbandonando i lavoratori al degrado della vita dei poveri, senza prospettive per il futuro.
Paradossalmente, in una situazione che avrebbe potuto e dovuto rafforzare gli antichi legami di solidarietà, la solitudine e l’abbandono dei vecchi minatori aveva favorito lo scoramento, l’aberrante e rabbiosa idea che fossero stati i lavoratori stranieri - i Ragheads (beduini) in fuga dalla Siria, travolta dalla guerra - a fregarli: essi avevano ottenuto dalla solidarietà del parroco cattolico di Durham, sostenuto da TJ, quegli aiuti (pacchi di alimenti, indumenti ricciclati, farmaci, stanze abbandonate) su cui reclamavano la priorità, in quanto inglesi e patrioti: England First .
Su quei poveri diavoli si scarica il loro violento rancore, fatto di parole che feriscono per il razzismo volgare, di pesanti allusioni sessiste, di atti aggressivi che non risparmiano nessuno, né gli animali, né gli oggetti, né i progetti generosi del vecchio TJ, che vorrebbe veder rinascere nel suo pub l’amicizia e la solidarietà, contrapponendo all’odio e all’invidia, l’amicizia e la generosa dignità di chi è disposto a dare il proprio tempo e le proprie conoscenze per ristrutturare il locale e utilizzarlo per un pranzo collettivo, nella speranza che If you eat together, we stick together.
Racconta il regista che si è ispirato a fatti realmente accaduti nel 2016 aggiungendo di aver scritto la sceneggiatura insieme al suo collaboratore Paul Laverty e di aver realizzato in sei mesi le riprese – con attori per lo più non professionisti – ma che due anni furono necessari a costruire il film.
”[…] c’erano due comunità: una lasciata senza nulla e l’altra altrettanto abbandonata, ma con il trauma di una guerra alle spalle, in un paese di cui non conoscevano neanche la lingua. La domanda era: riusciranno a trovare un modo per andare avanti? Vincerà l’amarezza, la rabbia, la propaganda dell’estrema destra o l’antica solidarietà dei lavoratori?”, decidendo infine di non chiudere la sua ultima opera alla speranza.*
Due donne – una è britannica; l’altra è la giovane siriana Yara (Ebla Mari), appassionata fotografa e dal cuore colmo d’angoscia per la sorte del padre, rimasto in Siria in carcere – avrebbero organizzato una mensa dei poveri, in cui operai disperati ed esuli avrebbero forse cominciato finalmente a parlarsi e soprattutto ad ascoltarsi. Potrebbe essere l’inizio del lungo e difficile percorso per ritrovare la consapevolezza della comune umanità…
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* le dichiarazioni del vecchio Ken, rilasciate al pubblico del cinema Troisi di Roma presente all’anteprima di questo suo ultimo film, sono state raccolte dalla giornalista Annalisa Camilli, per L'Internazionale
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