Regia di Philippe Garrel vedi scheda film
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Le grand chariot di Philippe Garrel è un’ennesima fiera del cinema del ricamo e della tessitura fine e aggraziata a cui il regista francese ci ha abituati da decenni. La scansione per scene aspira al respiro dell’aneddoto e del proverbio, ma non è davvero il formato rohmeriano quello a cui Garrel fa (o ha mai fatto) riferimento; è invece più ozuiana questa storia di una famiglia di marionettisti, in cui gli anziani trasmettono una passione ai figli e i figli la portano con loro finché possono e finché se la sentono. Quasi come con le erbe fluttuanti: in ogni scena (che per dettagli e tonalità è un intero mondo a sé) c’è sempre un equilibrio da riconfigurare, un rapporto fra personaggi da ridefinire, e tutto sarà evocativo come in una recita. Esther Garrel che diventa piccola sullo sfondo quando il suo desiderio di proseguire con lo show delle marionette si avvia al declino; Louis Garrel sempre enorme, in primo piano, a governare sulle scene, ad “ascoltare” la voce fuoricampo che gli spiega la sua parte (forse imbarazzandolo); il personaggio di Peter le cui scene si concludono interrotte, inconcluse e inconcludenti, come un dramma senza senso. C’è la percezione di una dolce resa in Le grand chariot. Tutto va in malora, o è solo il destino del normale cambiamento delle cose? Gli anziani lasciano davvero qualcosa, o i figli hanno un controllo sul mondo, lo sanno vedere coi loro occhi, lo sanno re-interpretare? Sono domande lontanissime dall’essere paternaliste, pur essendo un film di un padre che riprende i suoi tre figli, e la commozione irrompe con il leggero accordo di una chitarra, o con un lento movimento di camera, insomma come uno spettro di rassegnazione. Per nulla mesta, ma viva e attiva, e per questo ancora più commovente. È quella di Ozu, infatti, la capacità di intendere il rapporto fra generazioni come un procedere naturale, in cui il conflitto è variegato e ha una forma imprendibile. Il voice over, l’idea dello spettacolo, sono alla fine l’utopia di un mondo in cui le persone possono essere capite e inquadrate. Invece in ogni scena de Le grand chariot il campo è interrotto, il fuoricampo infuria, l’incertezza è palpabile e le storie non iniziano e non finiscono se non per convenzioni di messa in scena. Le inquadrature possono alludere - la sequenza dello spettacolo con il padre e la figlia che muovono le marionette, col padre che finisce per abbracciarla per esigenze di scena, è eloquente, evocativa, bellissima - ma qualcosa sfugge sempre, è giusto che sfugga. E in Garrel questa legge di vita sembra dolcissima.
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