Regia di James Mangold vedi scheda film
Harrison Ford è ancora credibile nei mitici panni dell'archeologo avventuriero più famoso del cinema, in un film godibile, nostalgico e celebrativo dedicato soprattutto ai fans di lunga data.
Il problema principale di questo tanto atteso e discusso Indiana Jones e il quadrante del destino è proprio Indiana Jones. Non perché il personaggio non funzioni più, sia scritto male o sia stato impersonato svogliatamente dal suo interprete, ma per quello che gli è successo in questi decenni. In una parola: è invecchiato. È invecchiato davvero, stavolta, nel corpo e nello spirito. In solitudine e in anonimato, nonostante le grandi imprese compiute.
Non sono stati soltanto i chilometri ma anche gli anni a lasciare segni profondi sul suo volto e sul suo animo, cupo e sconfitto.
Tutto questo non è affatto facile da accettare per chi è cresciuto insieme a lui e ne ha conservato nella mente e nel cuore quell’immagine sfolgorante e vincente consegnataci dal cinema per la prima volta oltre quarant’anni fa. Perché il brillante e temerario archeologo apparso per la prima volta sul grande schermo nel 1981 ha conquistato generazioni di giovani sognatori con le sue spericolate avventure in luoghi esotici alla ricerca di mitici tesori sepolti, tra prove di astuzia e coraggio, fughe rocambolesche e scoperte incredibili, pericoli mortali e nemici spietati, in equilibrio costante tra ragione e fede, superstizione e conoscenza, bene e male, fortuna e gloria.
È diventato un eroe, un’icona, una leggenda e come tale nel nostro immaginario non può che restare così: immutabile, invincibile, sempre giovane e attivo.
E invece in questo quinto capitolo siamo messi di fronte ad una cruda realtà: Indiana Jones non è più quell’audace e aitante cercatore di misteriosi manufatti dimenticati, bensì un anonimo e scorbutico professore che nessuno studente sta più ad ascoltare. Lontani sono i giorni in cui sconfiggeva beffardo schiere di stolti nazisti senza scrupoli invasati dalla sete di onnipotenza e impegnati a saccheggiare reliquie dotate di mistici poteri da usare come armi per imporre la loro egemonia sugli altri popoli. Adesso si muove accigliato e spaesato in un’epoca moderna tutta proiettata verso il futuro e la conquista dello spazio ultraplanetario e dimentica della storia e dei suoi preziosi insegnamenti.
Ormai settantenne e neo-pensionato, ha perso i suoi affetti più cari, è un uomo solo, ignorato e incompreso che sente di non avere più un ruolo nel mondo in continuo cambiamento che lo circonda. Ma il passato ritorna a chiedere il suo conto e lo costringe a rimettersi in gioco attraverso la ricomparsa di due persone: la perduta figlioccia, ora convertitasi in spregiudicata trafficante di reperti rubati, e un redivivo nemico con cui si era già confrontato ai tempi delle sue scorribande contro i nazisti, che, grazie ad un fantomatico marchingegno realizzato dallo scienziato Archimede di Siracusa, reputato capace di permettere lo spostarsi nello spazio-tempo, minaccia di riportare in vita il Terzo Reich.
Il burbero professor Henry Walton Jones Jr, coinvolto suo malgrado in tale cospirazione, dovrà dunque rispolverare cappello, frusta, pistola, intuito, destrezza e scaltrezza per evitare l’ennesimo piano di conquista attuato da questi fanatici recidivi, finendo nella consueta girandola di viaggi e inseguimenti, da New York alla Sicilia, con una conclusione azzardata che osa spingere il racconto ben al di là dell’esoterismo e del sovrannaturale, per sfociare, come già accaduto nello scorso capitolo, nel regno della fantascienza.
Plausibile, accettabile, coerente? In qualche modo sì, perché stavolta questo arduo sconfinamento viene gestito con maggiori spunti di riflessione.
La maggiore novità di questo quinto e ultimo film della saga è però il cambio di regia: il valente James Mangold, classe 1963, prende il posto del geniale Steven Spielberg, ovvero il papà cinematografico di Indiana Jones, che rimane però tra i produttori esecutivi, insieme a George Lucas, altra mente creativa dietro il successo del celebre archeologo avventuriero. Mangold, regista solido e di trentennale esperienza che può vantare nel suo curriculum diversi film di buon successo tra western, drama, action e cinecomic, riesce a gestire abilmente l’alternarsi di scene frenetiche anche piuttosto affollate, tra comparse dal vero e CGI, a momenti più intimi e riflessivi che consentono di cogliere meglio i personaggi e le loro motivazioni. Tuttavia nelle sue inquadrature duole notare come manchi quella scintilla, quel senso di suspense, di scoperta e meraviglia, quel respiro di epicità scanzonata intrisa di umorismo e romanticismo che è stata il tratto distintivo dei film precedenti. Non ci sono scene davvero memorabili, un particolare frame o momento che resti impresso al primo impatto, laddove perfino il vituperato Indiana Jones e il Regno dei Teschi di cristallo al contrario poteva vantarne diversi.
La lunga sequenza introduttiva ambientata nel 1944, malgrado a tratti dia l'inevitabile sensazione di stare assistendo ad un videogame, per la sovrabbondanza di effetti digitali usati soprattutto per l’azzeccato ringiovanimento di Harrison Ford (discretamente riuscito ma non del tutto credibile) nonostante tutto è forse la parte del film che riesce a riportare con maggiore efficacia lo spettatore più appassionato alle atmosfere tipiche della trilogia originale. E non solo perché qui l’eroe è ancora prestante e il contesto in cui agisce è quello della seconda guerra mondiale, ma proprio per la qualità e la dinamicità della messa in scena, tra montaggio, ritmo, colpi di scena, dettagli in primo piano, toni semiseri dell’azione.
Per il resto del tempo invece la sceneggiatura, tra qualche imprecisione nella gestione dei tempi, una modesta valorizzazione delle ambientazioni e dei dialoghi non sempre degni di nota, sembra quasi riavvolgersi ripetutamente in se stessa, in particolare nel modo in cui approccia i vari passi che conducono i protagonisti al climax, ovvero il rinvenimento del quadrante del titolo.
Godibili e spettacolari, sebbene al limite del fracassone, le scene degli inseguimenti (anche queste abbondantemente rielaborate dalla computer grafica) che però ruotano per ben tre volte attorno allo stesso oggetto che ripassa per le stesse mani e dunque finiscono per sembrare quasi dei riempitivi. Meno coinvolgente e approfondita, e questo è senz’altro un grosso punto debole, risulta la parte più fanta-archeologica che pare risolversi in maniera un po’ sbrigativa rispetto al resto, riducendo quella patina di mistero e stupore ben presente in tutte le pellicole precedenti.
Malgrado questi difetti, però, la durata che sfiora le due ore e mezza non si percepisce più di tanto e le interpretazioni degli attori protagonisti sono tutte credibili e centrate.
Harrison Ford, alla sua veneranda età, sprizza ancora fascino e carisma, rivestendo con padronanza, affetto e ironia i panni di uno dei personaggi che lo hanno consacrato nell’Olimpo delle star di Hollywood, riuscendo a donargli inedite sfumature più drammatiche e mature che lo rendono più tridimensionale rispetto al passato. La trama comunque non lo mette all’angolo, chiedendogli di cavalcare, correre, menare e scudisciare i nemici con la stessa grinta di sempre e questo talvolta stride con l’età anagrafica del suo alter ego (che dovrebbe avere dieci anni di meno dell’attore) di cui viene più volte ribadito come si sia ritirato dalla vita avventurosa di un tempo per una più tranquilla carriera universitaria.
Phoebe Waller-Bridge, che sulla carta poteva convincere meno in quanto più avvezza a recitare in piccole produzioni teatrali o televisive di genere comico, si rivela invece un’ottima comprimaria, prestando il suo viso molto particolare ed espressivo e il fisico atletico e asciutto alla sfrontata e intraprendente Helena Shaw, non tralasciando di far emergere qua e là anche il suo lato più fragile ed emotivo, ben mascherato dietro la parlantina sciolta e il sorriso da sbruffona.
Mads Mikkelsen è chiamato ad impersonare, l’antagonista principale, forse il personaggio meno originale e caratterizzato, uno scienziato freddo, metodico e inflessibile, del quale grazie alla sua efficace mimica facciale e alla sua gestualità, pur ridotta al minimo, riesce a far trasparire la sua mente calcolatrice e devotamente ancorata al passato. Il suo cervellotico astrofisico Jurgen Voller non è però sufficientemente odioso rispetto ad altri nemici affrontati in precedenza.
I personaggi di contorno, tra cui spiccano un paio di camei storici che contribuiscono ad accrescere l’intento celebrativo e nostalgico della pellicola, sono in linea di massima tutti ben inseriti nella narrazione, con uno spazio maggiore rivolto al giovane Teddy (Ethann Isidore), aiutante scavezzacollo della coprotagonista e ideale “sostituto” dell’indimenticabile Shorty (il neo premio Oscar Ke Huy Quan), forse pensato apposta anche per avvicinare il pubblico adolescente.
In definitiva Indiana Jones e il quadrante del destino è un film che ruota tutto attorno al concetto di tempo e mito, un film che pur tentando di aggiornarsi all’oggi si rivolge principalmente ai fans di ieri (e non poteva essere diversamente), un film imperfetto, talvolta ingenuo, ammiccante, zoppicante, di cui non si sentiva la stretta necessità, ma realizzato con onestà, dedizione e impegno.
Un omaggio sentito e un addio rispettoso ad un personaggio (un uomo?), che è stato e sarà per chi lo ha conosciuto e amato semplicemente intramontabile.
Buon pensionamento, caro professor Jones.
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