"La storia non è che una lunga lista di sconfitte, professore Jones".
Una volta al cinema un personaggio ringiovaniva o invecchiava in forza dell'utilizzo di differenti attori chiamati ognuno a dar corpo e volto al personaggio coinvolto, durante un intervallo temporale per il quale anche una importante seduta al trucco non sarebbe stata credibile.
Da quando Scorsese ha mirabilmente ringiovanito i suoi fidati attori De Niro e Pacino nel suo magnifico The Irishman del 2019, questo espediente è decisamente tramontato, come dimostra, in maniera effettivamente straordinaria, l'incalzante incipit di oltre venti minuti che apre la quinta avventura dedicata all'intrepido archeologo Indiana Jones.
Se Bille August avesse avuto questa possibilità nell'ormai lontano 1993, quando decise di trasporre il noto romanzo La casa degli spiriti forte di un cast da capogiro, l'allora quarantacinquenne Meryl Streep sarebbe certamente apparsa più dignitosamente credibile nei panni di una protagonista diciottenne, salvando almeno in parte le sorti bolse e deludenti di un filmone davvero poco riuscito.
Nello stesso capitolo 3 delle avventure di Indi, "Indiana Jones e il tempio di cristallo", un giovane archeologo in erba era efficacemente reso dal compianto River Phoenix, perfettamente in grado di risultare credibile nel ruolo del giovane post-adolescente che precedette il celebre avventuriero.
Trovarci oggi dinanzi ad un Harrison Ford quarantenne perfettamente credibile, è certo un'emozione non da poco, anzi forse la vera e sola sorpresa di un film-carrozzone diretto con l'abituale professionalità dal più che affidabile regista di lungo corso James Mangold, ineccepibile nell'impostazione e nello sviluppo dell'opera.
Quello che decisamente convince meno è la sceneggiatura farraginosa e oltremodo contorta e inutilmente complessa che circonda la storia.
D'altro canto ovunque ormai il cinema mainstream, dai Marvel ai DC, fa sempre più ampiamente ricorso a storie che si intersecano nel tempo e nello spazio, con utilizzo di multiversi e diavolerie simili che tuttavia riescono talvolta ad entusiasmare sia il pubblico sia la critica.
Se si pensa al successo ed ai premi ambiziosi ricevuti da un film come Everything Ewerywhere all at Once, pluripremiato agli Oscar con smodata convinzione ed ostinazione, si ricevono solo conferme al riguardo.
Il buon vecchio Indi, ritrovatosi a fine anni '60 nel periodo in cui l'imminente sbarco sulla Luna accentra ogni interesse pubblico per il futuro, piuttosto che per i misteri archeologici celati meticolosamente da alcuni geniali nostri antenati un po' sadici, dovrà affrontare la consueta rutilante serie di peripezie, confrontandosi pure lui con l'incognita temporale.
Ma stavolta, tra peripezie sotto i mari con anguille marine non proprio ben focalizzate, o semplicemente necessarie, improbabili tesori nascosti a Siracusa nei pressi della nota località archeologica che custodisce la suggestiva grotta conosciuta come Orecchio di Dionisio, ed incontri malandrini a tu per tu con il buon vecchio Archimede ("Mio Dio... stiamo vivendo la storia") che al confronto funzionava decisamente meglio il bonario, gustosissimo incontro di Troisi e Benigni con il Leonardo da Vinci di Paolo Bonacelli, il film si ritrova alla stregua di un luna park caotico e confusionario non troppo dissimile dalla situazione in cui si vanno a cacciare ormai tutte le super produzioni Marvel e DC.
Prodotti schiavi di sceneggiature farneticanti ed inutilmente farraginose, al servizio di un prodotto dalla durata esorbitante del tutto incongrua con le necessità di un pubblico destinato a trascorrere quasi tre lunghe ore in sala tra i tortuosi percorsi di una montagna russa che finisce per infastidire e deludere.
Il cinema schiavo di questo tipo di sceneggiature meccaniche ed eccessivamente costruite, finisce inevitabilmente per trasformarsi, più che mai, in un prodotto usa e getta che non lascia nulla in termini di sorpresa, emozione e autenticità.
Ingredienti, questi ultimi, che un cinema che aspira ad essere arte, e non solo business, deve comunque far suoi in modo irrinunciabile.
Un Harrison Ford, in gran forma ad ottant'anni suonati, aitante al punto da poterne dimostrare oltre dieci in meno, è la vera forza del film fracassone che ha la l'astuzia un po' ruffiana di puntare sull'emozione che il personaggio riesce ancora a sprigionare, sciupando ogni altra occasione che resti legata invece alla confusionaria ed eccessiva vicenda che muove la trama
Gli fa da contraltare un Mad Mikkelsen cattivo e nazista dai modi più eleganti ed ironici che veramente odiosi, descrivendo i tratti di un personaggio che riserva, magari generosamente in capo al suo avversario eroe, qualche battuta di buon livello, come
"Tu sei tedesco Voller...non riesci a essere spiritoso...".
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