Regia di James Mangold vedi scheda film
I primi tre film della saga (I predatori dell’arca perduta, Indiana Jones e il Tempio maledetto, Indiana Jones e l’ultima Crociata) sono dei veri pilastri della cultura pop (e anche il quarto, Indiana Jones e il teschio di cristallo, per quanto vituperato da molti, ci ha almeno insegnato che anche i miti migliori non possono durare in eterno) trasformando il protagonista in una figura quasi mitologica, un elemento folcloristico contemporaneo e/o archetipo moderno ( a sua volta costruito su archetipi del passato, cinematografici e letterari) su quale costruire nuove storie e nuove avventurose nonostante il passare del tempo e le nuove sensibilità abbiano ormai reso anacronistica la figura dell’avventuriero di stampo coloniale (ma forse è proprio questo il segreto del suo successo) è indubbio che Indiana Jones abbia plasmato l’immaginario avventuroso cinematografico (e non solo) degli ultimi quarant’anni.
E dopo tutto gli stessi film sull’archeologo/avventuriero risultano (cinematograficamente) alquanto anacronistici, film d’avventura classici che raccontano di personaggi alla ricerca di straordinari “tesori” (che si definiscano reperti, manufatti o antichità in realtà sono esclusivamente quello) attraverso un’azione spesso vorticosa, anche irrealistica o esagerata, ma mostrando sempre la stessa monolitica fissità narrativa e/o formale, con vicende che ruotano generalmente intorno al confronto tra buoni e cattivi, rigorosamente riconoscibili e privi entrambi di particolari sfumature, e ambientati in regioni esotiche e lontane (dagli Stati Uniti) per un’avventura pura e semplice ma che, se miscelata con cura, è comunque capace di lasciare il segno.
La stessa ispirazione per il personaggio di Indiana Jones viene dal passato, dai veri avventurieri del’800 e dei primi del ‘900 (in primis l’inglese Percy Fawcett) ma anche dagli eroici personaggi interpretati da Douglas Fairbanks, dai western dell’età dell’oro o dai serial d’avventura a basso costo degli anni ’30 e ’40, stereotipati nella scrittura ma ricolmi di azione, avventura, nemici, tensione e luoghi esotici, filtrando il tutto attraverso la visione eroica degli anni’80 ma dai contorni ancora estremamente classici.
E da qui nasce la domanda più importante: avevamo davvero bisogno di un altro Indiana Jones e, soprattutto, davvero vogliamo rivedere un Harrison Ford invecchiato fingere di essere ancora giovane?
Evidentemente sì visto che è la nostalgia, non soltanto nel rivedere un vecchio amico (per l’ultima volta?) ma anche per tutto il background (cinematografico, storico, culturale. Anche sentimentale?) che si porta dietro, uno dei motivi (il principale?) per cui il film esiste.
A questa giro Steven Spielberg rimane, insieme a George Lucas, soltanto come produttore mentre lascia la regia al suo discepolo Jamas Mangold, che firma anche la sceneggiatura insieme a Jez Butterworth, John-Henry Butterworth e David Koepp, ed inizia con un lungo flashback che, oltre a dare sfoggio di una tecnologia di ringiovanimento in CGI ormai quasi perfetto, introduce subito il reperto archeologico al centro della storia, ovvero la macchina di Anticitera, un sofisticato planetario, ritenuto il più antico calcolatore meccanico conosciuto, che serviva, probabilmente, a calcolare il sorgere del sole, le fasi lunari, i movimenti dei pianeti allora conosciuti come anche gli equinozi, i mesi e i giorni della settimana i cui resti sono stati rinvenuti nel relitto di una nave nei pressi dell'omonima isola greca, che nel film viene ritenuto opera di Archimede (in realtà non se ne conosce il creatore, seppur sia accertata di origine ellenica) e risulta essere anche in grado di prevenire l’aprirsi di particolare varchi temporali che consentono i viaggi nel tempo.
E Il quadrante del destino, effettivamente, è un discreto Indiana Jones, ben girato e ottimamente interpretato ma manca di quel guizzo narrativo, o di dialogo, o di una qualche ricercatezza visiva particolare, anche nelle riprese più banali, che riesca a tirare fuori al momento più opportuno quel momento iconico che finisce per caratterizzare l’intera opera.
Non annoia e non offende come Il teschio di cristallo, per fortuna, ma non sbalordisce né emoziona davvero se non per la sua carica emotiva costruita però sulla base delle precedenti pellicole.
Per diversi aspetti è anche un film diverso dai precedenti ma cade inesorabilmente nell’errore più banale possibile, ovvero lo infarcisce di rimandi alla saga per un’operazione nostalgia che sembra però tradire più una carenza di idee piuttosto che non del semplice fanservice.
Ecco quindi tornare tutti i cliché possibili e immaginabili, dagli inseguimenti a cavallo o con mezzi anche anticonvenzionali alle grotte in cui strisciano schifezze di ogni tipo passando, nonostante siamo negli anni’60, ai tradizionali nemici di Indiana Jones (i nazisti) o a viaggi in paesi esotici e locali malfamati in mano alla criminalità del luogo, nuovi compagni di viaggio (e un nuovo Shorty) e camei nostalgici di vecchi amici (John Rhys-Davies) e pur ammettendo che è divertente rivedere certe situazioni così familiari una certa esasperazione nell’uso degli effetti speciali finiscono per rovinarne un po' l’illusione, effetti che nella trilogia originale non tradiva la sua natura artificiale ma restituiva almeno una certa concretezza che oggi l’(ab)uso della CGI invece non riescono a simulare.
Inoltre, i film di Indiana Jones sono sempre stati delle corse ma non erano esclusivamente questo mentre qui manca (quasi) tutto il resto che poi rappresenta la stessa grammatica della saga, tra trovate geniali, battute memorabili (E questa la chiami archeologia?) alternati a momenti più di introspezione, sequenze la cui potenza visiva le ha trasformate in simboli che perdurano ancora nel tempo (la montagna del logo della Paramount che diventa il vero picco del monte Shubet in Perù prima ancora che il film inizi in I predatori dell’Arca perduta o una Fedora raccolta da terra prima che una porta di pietra si chiuda per sempre) e che in questa nuova pellicola sembrano invece mancare.
Eppure, il film offre un’ottima fotografia di Phedon Papamichael e la solita colonna sonora del maestro John Williams in ottima forma, inoltre ha un buon dosaggio tra azione e introspezione e Mangold conferma una regia salda e concreta ma... non è Steven Spielberg.
Anche la scelta di far sprofondare il protagonista in una crisi esistenziale, esasperando anche intrecci e ruoli, per quanto coerente con il racconto tradisce, in parte, lo spirito goliardico, anche irriverente e (a volte) sardonico della trilogia originale e, in fondo, vedere Indiana invecchiato, sconsacrandone il mito rendendolo superfluo e inutile nei rutilanti anni’60 e accompagnandolo nella sua “ultima corsa” potrebbe negare, seppur involontariamente, l’idea stessa di avventura.
Il ritmo però è generalmente buono è anche l’introduzione del personaggio di Helena Shaw, la figlioccia di Indiana interpretata da Phoebe Waller-Bridge (Fleabag), permette di infondere al film una certa spontaneità e un’ironia più tagliente, inoltre le dinamiche tra la Weller-Bridge e Harrison Ford funzionano anche piuttosto bene.
Anche per merito dello stesso Harrison Ford che nonostante l’età propone un’ulteriore prova maiuscola per quella che è la sua ultima interpretazione del personaggio.
Decisamente più ordinaria invece l’interpretazione di Mads Mikkelsen che sembra, anche in questo caso, procedere col pilota automatico mentre concludono il cast Toby Jones, Ethann Isidore, Boyd Holbrook, Shaunette Renée Wilson, Antonio Banderas (in quello che è in pratica un “grosso” cameo), Thomas Kretschmann e i camei (questi veri) di John Rhys-Davies e Karen Allen.
Alla fine, Indiana Jones e il quadrante del destino è esattamente quello mi aspettavo, sempre grande intrattenimento, solido, ma meno sbalorditivo, forse un po' più contorto ma comunque godibilissimo e sebbene mostri spunti di riflessione interessanti risulta anche privo di vere scelte azzardate preferendone invece altre più comode pur di rimanere in territori sicuri mentre colpisce, da questo punto di vista, come alcuni spunti spiccatamente horror e fantastici, ben presenti nelle trilogia iniziale, vengano invece a mancare già a partire da Il teschio di Cristallo mentre, in modo analogo, l’impostazione magico-religioso dei primi film si sposta su un canone molto più fantascientifico (o para-scientifico) prestando il fianco ad eccessivi spiegoni togliendo mistero alla narrazione.
Manca anche di immaginazione, almeno fino al plot twist finale un tantino azzardato, per quello che, alla fine, è comunque un rispettoso e affettuoso saluto a un vecchio amico che ci lascia (!?).
Ma, a parer mio, Indiana Jones e l’ultima crociata era già di per sè un saluto perfetto.
VOTO: 6,5
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