Regia di Ryan Coogler vedi scheda film
Rispetto a molte altre pellicole Marvel del post Endgame, legate dall'atteggiamento funebre nei confronti dei protagonisti delle prime fasi con la morte dell’eroe e il passaggio di consegne del suo ruolo iconico, Wakanda Forever si apre con la necessità di un cambio effettivo dettato dalle contingenze del vero trapasso dell'interprete principale, su cui si apre, con una certa sincera ricercatezza, il film. Il battito cardiaco in primo piano, che va spegnendosi, il disperato tentativo di salvare tecnologicamente il re africano, l’uso intenso del fuori campo che assume più marcato significato, per poi avvicendarsi all’affanno e al dolore della famiglia, sono un riflesso del reale commiato dovuto a Chadwick Boseman e al suo T’Challa. Un ruolo che non sarà più ripreso, ma solo il titolo di Sovrano del Wakanda e novella Pantera nera verranno tramandati.
Eppure il nuovo capitolo incentrato sullo stato africano segreto non risulta all’altezza del suo incipit, con un susseguirsi abbastanza confuso di scene d’azione e di massa, a volte anche male animate. Col pretesto della scomparsa del suo regnante, gli altri stati sovrani vogliono mettere le mani sul prezioso vibranio, quasi esclusiva del Wakanda, facendone uno regno reietto e sotto assedio, benché orgoglioso e pericoloso. Se tra le righe non è impossibile vedere una sfaccettatura della conseguenza dell’atteggiamento imperialistico occidentale (con in primo piano la Francia, con la geopolitica irrinunciabile della FranceAfrique), tutto ciò sembra infine soltanto funzionale al parallelo col mondo sottomarino (si sarebbe detto atlantideo, nei fumetti) di Namor, re anfibio degli esseri marini. Longevo e arrabbiato, Namor nasce semiumano, volante e natante, con una voglia di rivalsa verso gli oppressori terrestri, per i quali cui prova infinito odio, e si sente parte di una minoranza perseguitata, essendo anche erede di una civiltà india sterminata per ingordigia da una civiltà occidentale usurpatrice.
Personaggio sfuggente e ambiguo anche nelle tavole cartacee, Namor si propone come campione di ogni oppressione ma sembra, nel film, vivere soprattutto per un’unica frase da leggere come introduttiva di un nuovo universo narrativo in via di elaborazione e contaminazione all’interno del mondo Marvel (perché successivo all’acquisizione di Fox): “Io sono un mutante”. La sua natura di anomalia genetica prevale su quella culturale, rinfocolando le tendenze separatiste, evidenziate da Magneto negli X-men classici, che non contemplano la possibile convivenza con gli umani ma sfociano in una lotta all’ultimo sangue per la prevalenza del più forte, secondo una lettura forsennata del darwinismo evoluzionistico. Ed è questa visione, latente nel film, che ne fagocita il senso e giustifica il voltafaccia del personaggio, destinato a ulteriore intervento nel MCU assieme ad altri e geneticamente differenti eroi, cercando spessore in un’interpretazione limitata e positività apparente in un protagonista dalle colpe irredimibili. Namor è solo una premessa, nella promessa di altre storie.
L’altro racconto del film risiede nel destino di Wakanda, così legato al ruolo e al potere del suo sovrano, adesso in assenza di eredi designati. E rientra nel filone Marvel del passaggio di consegne e di costume, e, così come lo scudo di Captain America passa nelle mani di Falcon (nella serie Disney+), lo scettro della Pantera Nera si trasferisce, inevitabilmente, in quelle della sorella di T’Challa, inizialmente reticente ma infine degna e rassegnata al suo ruolo, come ogni favola sul destino dell’eroe vuole. Ed è ancora un racconto funesto quello di questo film, non solo per l’assedio quasi fatale al regno africano, ma per la morte dell’altro cardine dei film su Black Panther, la regina madre Ramonda, interpretata con dignitosa fermezza da Angela Bassett.
Dalla scelta del segregazionismo prudenziale verso l’integrazione, il Wakanda evolve verso nuove definizioni con la giovane sovrana e novella eroina mascherata: ed è in fondo un passaggio generazionale che si celebra nel film, con la finale agnizione del figlio ignoto di T’Challa e l’apertura a future speranze, mentre il regista recupera toni e atmosfere da Moonlight (con le sue reminiscenze malickiane semplificate) per mettere in scena la prospettiva di un domani migliore. Ma, ingenuamente o volutamente, per retorica poetica o inquietante prospettiva non è dato sapere, con scene di riunione familiare in riva a un mare che, ormai, sappiamo abitato e pericoloso.
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