Regia di Lamberto Bava vedi scheda film
Lamberto Bava porta sullo schermo un vecchio mito horror infantile: l’Orco. Lo fa con tutti i crismi dell’artigianalità. Gioca molto sui silenzi, sulla fissità degli interni per creare una evocazione orrorifca atavica, che risiede nell’incubo, nell’infanzia, nella prepubertà. Certo, tutti i pruriti sessuali sono tranquillamente castrati, e tutto resta sullo sfondo. Ma un gran bello sfondo, di cartapesta, bidimensionale, teatralissimo, ingenuo e puerile in senzo buono, dove ingenuità e puerilità sono le chiavi di lettura della visione orrorifica dei bambini e del racconto nero orale. Ricorda molto da vicino il fulciano “Quella Villa Accanto al Cimitero” dove una famiglia va ad abitare in un’altro luogo e in un’altra casa che però racchiude un terribile mostro. Là era il mitico Dr. Freudstein, la miglior maschera horror di tutto l’horror italiano, qui è un orco davvero grezzo, ma stupefacente, la cui plasticità aiuta a recuperare, soprattutto rivisto oggi, sia un puro gusto per l’artigianalità del mestiere, sia lo stimolo immaginifico per andare oltre, cosa che il digitale non può obiettivamente fare. La manualità è connaturata all’essere umano, mentre la digitalità ne è una sua esterna perfezione. Vanno da sé quei richiami veloci e indolore alla metanarrazione di lei, autrice di romanzi horror, che scrive storie raccapriccianti per esorcizzare un’incubo infantile, che vede rivivere sotto i suoi occhi. Lo zampino di Stephen King, che negli ’80 era all’apice della forma e del consenso, si vede, è percepibile. Sicuramente “La Casa dell’Orco” è, tra gli horror grezzi della fase finale del nostro pluriamato cinema di genere, uno di quelli meglio riusciti e più evocativi.
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