Regia di Arturo Ripstein vedi scheda film
Medea in un cortile di case popolari, in Messico. Julia, maga e mammana, è abbandonata dal marito per sposare la figlia del guappo di quartiere. Questi le intima di andarsene l’indomani, giorno fissato per le nozze, e di lasciare i figli al marito. La tragedia sarà inevitabile. Il film è una sorta di telenovela brechtiana, girata in digitale, in cui i monologhi corrispondono a implacabili piani sequenza in interni. Da confrontare con von Trier: anche qui video e camera a mano, ma invece di giocare col musical Ripstein si tuffa nella sceneggiata, in un grandguignol latino, e ne emerge continuamente per chiedere allo spettatore cosa sta guardando (si intravede la troupe allo specchio e gli attori si rivolgono alla mdp, mentre i mariachi escono dallo schermo Tv con scorno dei mezzibusti). È la lezione del Buñuel messicano, quello che avrebbe voluto mettere orchestre surreali sullo sfondo di “Los olvidados”. In un progetto che rischiava l’intellettualismo, Ripstein riesce per virtù di coerenza e radicalità (che significa anche fedeltà delle radici), ma soprattutto per amore dei personaggi (che è anche rispetto degli spettatori). Anche se la prima cosa che colpisce lo spettatore, e gli rovina la visione del film fino all’ultimo, è il doppiaggio eccessivamente ripulito della versione italiana.
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