Regia di Marco Bellocchio vedi scheda film
“Con il mio partito ho chiuso. Troppe corruzioni, troppe viltà, troppe stupidità. Quando sarò libero, se mai lo sarò, mi dimetterò dalla Dc e mi iscriverò al gruppo misto della Camera. Da quella posizione d’indipendenza potrò proseguire la mia battaglia politica, alla luce anche di quanto ho appreso in questi tormentati giorni”.
Bellocchio ritorna sul “luogo del delitto”, collegando idealmente questo film fiume con Buongiorno, notte tramite una rielaborazione della sua conclusione onirica per la quale nella finzione Moro veniva rilasciato. Qui sceglie la via della ricostruzione verisimile - del calarsi nella storia e nei fatti - dove là invece propendeva per la ricostruzione metaforico-metafisica. Tuttavia, la sua opera risulta al tirar delle somme troppo dispersiva e troppo lunga, e si perde in parentesi in tutta onestà non particolarmente utili, penetranti o cinematograficamente “prestanti”.
Esterno notte, peraltro, nel suo insistito focus posto su fattori psicopatologici e personali non riesce a mantenere viva l’attenzione ed omette tanti particolari viceversa interessanti al fine di meglio inquadrare la vicenda entro la sua epoca, ovvio, ma anche proprio nel suo svolgimento pratico e nelle sue motivazioni a monte e a valle (non per niente, la caratterizzazione dei brigatisti è probabilmente la più debole di tutte).
Il risultato, purtroppo, è un qualche cosa di simile ad un polpettone in diverse parti (segnatamente quella ruotante intorno alla famiglia, forse la peggiore) che non rende presente la Storia, non rende giustizia ai fatti (e va beh, si fa per dire) e, in special modo, non rende un gran servizio al cinema, qui fondamentalmente freddo, eccessivamente “psicanalitico” (c’è chi ha tirato in ballo l’eredità della frequentazione bellocchiana di Massimo Fagioli) e ripetitivo.
La decisione di incentrare la narrazione su vari personaggi – uno per episodio nella versione televisiva –, definita persino coraggiosa, produce un effetto di saturazione in quanto spesso la si tira troppo per le lunghe (vedasi l’episodio del papa, sostanzialmente sintetizzabile in cinque, massimo dieci minuti) e si esagera nel concentrarsi sulle manie, i tic, le difficoltà coniugali/sentimentali/psichiche di questo o quel soggetto (emblematico a questo proposito l'episodio su Cossiga, che preannuncia un’entrata in stato letargico della trama sino all’ultimo capitolo).
Anche se, per la verità, già il primissimo episodio dà la misura della lentezza con cui procede la narrazione: certo, all’inizio, si vuol dare modo di rimanere un poco col personaggio che poi scomparirà sino alla conclusione, tuttavia alla lunga sfugge l’importanza di tale concentrazione sulla sfera dell’intimità, condita in un paio di casi di metafore alquanto pleonastiche (il lavarsi le mani…). Persino la scena cardine dell’agguato non possiede quasi alcun pathos.
Il secondo episodio – come accennato sopra – tratteggia poi in maniera piuttosto discutibile il Cossiga, che ne esce fuori relativamente “intonso”, angosciato, dilaniato dai sensi di colpa e realmente interessato a salvare il proprio “mentore” (tutte questioni, francamente, perlomeno dubbie). Si perde troppo tempo dietro alle sue turbe e alle scene naif col sedicente consulente americano (potenzialmente utili, ma trattate rapidamente e come se il personaggio in questione fosse stato davvero inviato per aiutare a salvare Moro, altra questione perlomeno dubbia).
Il terzo episodio conferma l’inesorabile parabola discendente: tutto incentrato sul papa di cui ben si conoscono i tentativi di salvare l’amico (ripeto: si sarebbe potuto condensare in una decina di minuti) e capace di tirar fuori un’unica sequenza abbastanza riuscita, per quanto nuovamente gravata da un simbolismo decisamente elementare: il riferimento è ovviamente alla sequenza della via crucis.
Il quarto episodio se la gioca col quinto in ordine alla possibile discussione su quale sia effettivamente il peggiore del gruppo. Sì, perché i brigatisti sono caratterizzati alla stregua che in un’operetta (peggio di quanto fatto con Cossiga, Andreotti & Co.): sono delle sagome, degli autonomi, degli stereotipi, o fanatici invasati che corrono giulivi per casa (la Faranda) o affetti da sindromi del martire eroe della rivoluzione (il Morucci). Il tutto ignorando in buona parte il Moretti – invece figura chiave (e vagamente ambigua) – il quale fa da comprimario ai due alquanto assurdamente: sembrerebbe che ci si sia fidati un po’ troppo dei racconti egocentrici dei dissociati Faranda & Morucci, non si sa fino a che punto realmente convinti di ciò che hanno detto e riportato, dell’aver fatto tutto in autonomia senza addestramento alcuno, senza nessun avvallo o anche soltanto placida acquiescenza esterna.
Il quinto episodio risulta essere, in breve, un’evitabilissima parata del dolore di una famiglia che, dispiace, ma non aggiunge nulla di rilevante alla vicenda. Le parti interessanti (circa le lettere, i comunicati, gli ultimatum, il Lago della Duchessa, la politica della “fermezza”, le facce di bronzo della DC…) sono meramente una riproposizione di aspetti già affrontati, in alcuni stralci, negli episodi precedenti; mentre quelle inedite facilmente immaginabili e affatto necessitanti esplicitazione filmica (lo straniamento e lo struggersi di una famiglia, i tentativi di farsi ascoltare e di salvare il congiunto ecc.).
E – attraverso molte divagazioni e diversi sprazzi viceversa abbastanza pregnanti ma dispersi per questo mare di "svicolature" – si giunge dunque all’ultimo episodio: il più corto, che tira le fila del discorso e riporta in scena Moro, specialmente con la sequenza della confessione la quale – per quanto implausibile – almeno reintroduce un qualcosa di saliente nella narrazione, una sorta di sintesi dei sentimenti espressi nelle lettere (“Io odio… Andreotti”).
Strano, però, che non si affronti più di tanto la questione di chi davvero avesse interesse che il compromesso non andasse in porto (in qualunque indagine è il minimo partire da chi ci guadagna di più, no?) e che non si spenda neppure mezza parolina – neanche nelle didascalie finali che pure portano avanti la narrazione di qualche anno – circa il memoriale ritrovato in via Monte Nevoso, tra le cui pagine è possibile, col senno di poi, facilmente identificare i richiami alla struttura eversiva, a Gladio ecc.
La DC, in tutto ciò, rimane spesso sullo sfondo; la situazione internazionale ancor di più; e si ripropongono persino teorie sballate come quella dell’esecuzione effettuata nel garage quando è stato dimostrato che lo stesso era talmente basso che manco si sarebbe riusciti ad aprire abbastanza il cofano. Inoltre, ci sono diverse altre bizzarre “coincidenze” emerse via via negli anni, attraverso numerosi processi, commissioni e via discorrendo.
V’è il misterioso “super-attentatore” che da solo sparò oltre la metà dei colpi centrando tutti gli uomini della scorta e lasciando miracolosamente illeso Moro. L’altro, o il medesimo, personaggio che sparò pure da destra (cosa invece sempre risolutamente negata di brigatisti), eliminando soprattutto l’agente potenzialmente più insidioso, ovvero il Leonardi, che custodiva l’arma sotto il sedile.
Le curiose presenze in via Fani, ad es. il col. Camillo Guglielmi, uomo del Sid (nonché probabile addestratore di “gladiatori” alle avanzate tecniche dell’imboscata, cioè esattamente quelle messe in atto nell’attentato per lasciare illeso l’ostaggio), che affermò d’esser stato invitato a pranzo da un amico… alle nove di mattina.
Le circostanze quantomeno rocambolesche della fuga, a cominciare dal trasbordo dall’auto al furgone, nell’opera di Bellocchio mostrato come avvenuto in un luogo deserto e in realtà riuscito in una strada normalmente piuttosto trafficata.
Le modalità con le quali i brigatisti sarebbero riusciti a tener segreta la prigione in via Montalcini nonché la fortissima improbabilità che Moro sia stato davvero detenuto lì, in uno spazio sì angusto, per così tanti giorni quando le sue relativamente buone condizioni generali di salute al momento del ritrovamento tenderebbero ad escluderlo.
Le modalità altrettanto curiose con le quali gli attentatori Moretti e Balzerani sarebbero riusciti a tener celata la propria presenza in via Gradoli. La questione della scelta stessa di tale strada con un unico accesso, priva di vie di fuga e nella quale incidentalmente - guarda un po’ tu l’ennesima coincidenza - si trovavano alcuni immobili ascrivibili al Sisde (nonché informatori della polizia). La scoperta del nome “Gradoli” ma il “fraintendimento” per il quale si setacciarono i dintorni del paese omonimo mentre non si scoprì la più banale via romana.
Faranda e Morucci che – come si intuisce anche da una scena di Esterno notte – se ne andavano in giro tranquilli recandosi persino nei loro ristoranti prediletti dove vennero raggiunti da un intermediario del partito socialista, Pace (e, nel clima d’isteria dell’epoca, i servizi e la polizia invece non li rintracciarono mai e neppure pedinarono il vagante Moretti, arrivando così direttamente al luogo di prigionia). La falsificazione del comunicato n° 7, certo citata ma solo nei suoi effetti e non nelle sue premesse (falsario Chichiarelli, Banda della Magliana).
Le ambiguità del Moretti, intorno al quale sono sorti nel tempo molti dubbi e quesiti, faccenda direttamente collegata a quella delle infiltrazioni e a quell’altra del fatto che non si volesse per davvero avere Moro indietro.
Il ruolo del “consulente” Pieczenik, in orbita Kissinger (dunque, dipartimento di stato americano), prontamente inviato.
Il periodo storico – liquidato in poco didascalie iniziali – nel corso del quale, a seguito della disfatta del Vietnam, l’America in riassestamento stava riprendendo ad interferire pesantemente nelle vicende degli altri Paesi, sino ad arrivare al nuovo culmine raggiungo poco dopo con Reagan.
Tutte questioni, sinceramente, che se non arrivano a chiarire definitivamente l’accaduto di sicuro risultano ben più avvincenti ed intriganti dei tormenti interiori del papa, delle turbe di Cossiga o dei patimenti della famiglia (per quanto rispettabilissimi, ca va sans dire). C’è poi da aggiungere che forse si sarebbero fatto meglio a concentrarsi maggiormente sull’irrimediabile frattura che si produsse in quei giorni tra l’ostaggio e i suoi ex-amici di Partito, in quanto rende una volta in più l’assurdità della decisione finale di giustiziarlo, quando avrebbe quasi certamente fatto ben più danni al monopolio del potere DC e “allo stato borghese reazionario” da libero, con quello che sapeva e che poteva confermare e usare (vedi citazione in apertura).
Non ci guadagnarono nulla, in pratica, i brigatisti dal rapimento in sé e dalla sua conclusione, e neppure rivelarono mai al mondo quanto aveva detto Moro in quei giorni, col memoriale che verrà rinvenuto in parte già nell’ottobre del 1978 - e reso pubblico una volta opportunamente emendato - mentre quasi completo nell’ottobre del 1990, nello stesso identico stabile. Perché non lo fecero sapere? Non volevano anche solo tentare di rovesciare o almeno incrinare il potere democristiano? Come no, verrebbe da dire.
Facile liquidare quanto riportato come “dietrologia”, parolina magica adottata sempre più spesso per colpire indistintamente chi nutra dubbi fondati sulle motivazioni soggiacenti alle grandi decisioni politiche e ai grandi tornanti della Storia e chi nutra invece certezze insulse su cabale sotterranee di mangiatori di bambini e succhiatori di sangue. Tutti diventano, indifferentemente, complottisti, su certi giornali e in certi libri. La verità è sempre lineare, le coincidenze sono sempre ed esclusivamente tali, il resto è - in questo caso - appunto complottismo di estrema sinistra che ancora detiene una terribilissima “egemonia culturale nel Paese”.
In conclusione, Esterno notte è un film fondamentalmente algido - a parere di chi scrive - castigato, poco interessato ad inserirsi nelle pieghe storico-politiche di quanto accaduto (come si faceva ai tempi del cinema civile del passato, da Il caso Mattei a Sbatti il mostro in prima pagina dello stesso Bellocchio) e troppo interessato invece a portare in scena una sorta di “psicoanalisi di massa”, com’è stata definita, che finisce per impelagarsi in metafore scontate, in quadri psicologici caricaturali, in risvolti para-satirici sulle fattezze e gli atti degli uomini della DC che però al dunque non apportano alcunché se non una generale e scontatissima morale circa la corruzione e l’immoralità del potere. Peccato.
La ricostruzione d’epoca, la fotografia e in special modo alcune interpretazioni (mimetico Gifuni, che oltre che col personaggio reale aveva da confrontarsi anche con le passate due interpretazioni di quel fuoriclasse assoluto di Volonté) avrebbero meritato ben altro, un film di ben altra riuscita. E non un'opera fiume come Esterno notte alla fine tediante, poco impattante, troppo lineare e che non aggiunge assolutamente nulla di nuovo.
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