Regia di Marco Bellocchio vedi scheda film
Vigilia dell’ingresso del PCI in un governo DC presieduto da Andreotti. Il compromesso storico sta per concretizzarsi il 16 marzo 1978. Il deus ex machina è Aldo Moro, presidente della DC, docente universitario, quintessenza della politica democristiana che non doveva farsi processare nelle piazze. In un direttivo nazionale di partito invita i colleghi più riottosi all’appoggio esterno dei comunisti, invitando alla fiducia e alla responsabilità il più grande partito popolare italiano.
Nella rappresentazione di “Esterno notte”, diretta da Marco Bellocchio, emerge fin dalle prime immagini, l’auspicio della liberazione, già evocato nell’ideologico e immaginifico “Buongiorno notte”. I volti preoccupati di Cossiga, Andreotti e Zaccagnini, poi compare il verosimile Moro impersonato da Fabrizio Gifuni: padre, marito e nonno premuroso, politico lucido e austero, abile manovratore. Esemplare l’incontro notturno con il leader del PCI Enrico Berlinguer, ridotto a sparring partner del compromesso. Le motivazioni di tale accordo di larga intesa sono intuibili dal clima da guerra civile di quegli anni di piombo: teatralizzato da strade messe a ferro e fuoco e da atenei che pullulavano di simpatizzanti o infiltrati delle Brigate Rosse. C’è un morto ogni giorno, chiosa lo ieratico stratega. Le B.R. sono la forza rivoluzionaria che irrompe con un’azione di fuoco sterminando la fragile e umana scorta del Presidente. Bellocchio la risolve con un efficace minuto e mezzo, stemperato da una canzonetta commerciale francese del tempo. Dopo di che entra in scena con potenza il Ministro degli Interni Francesco Cossiga, il quale subisce letteralmente il sequestro dell’amico e maestro di diritto Aldo. L’unità di crisi è un coacervo di reazionari e piduisti, ma lui si appella al rispetto della Costituzione. La sua parte in tragedia è un rimando continuo ad episodi biografici relativi al privato, al comparire della vitiligine, al tentativo di salvare Moro costi quel che costi. Anche il repertorio di psicologo e consulente americano, intercettazioni, telefoni/confessionali aperti a mitomani, indovini e devianze per scoprire il covo e che porteranno alla farsa del lago della duchessa come summa negativa di una inadeguatezza del livello di indagini. Tutto materiale realmente utilizzato dal politico sassarese e che qui Bellocchio si diverte a inventare, come la soffiata che Moro fosse sotto mentite spoglie ospite segreto del manicomio Aurora. Oppure la rappresentazione della spartizione delle poltrone dei sottosegretari. I riferimenti metaforici della locandina di “Anima persa” di Dino Risi con il doppio Gassman recluso che anticipano il Moro considerato pazzo e manipolato nella prigione del popolo di via Montalcini, ma in realtà come scrisse in una delle tante lettere mi trovo sotto un dominio pieno e incontrollato. Messaggio in codice per avviare una trattativa.
Fausto Russo Alesi compie un’operazione di interpretazione mirabile nei panni del tormentato e distopico Kossiga. Gli altri due personaggi che emergono dall’analisi di questa tragedia italiana da un interno (davvero claustrofobico e febbrile nella messinscena Bellocchiana) è un Andreotti torvo (Fabrizio Contri) che rammenta quello interpretato da Michel Piccoli nel modello irraggiungibile e grottesco del “Todo Modo” di Elio Petri. Soprattutto Paolo VI, debilitato da un male lento e inesorabile che briga, prega e telefona per liberare senza condizioni (lo zampino del diavolo Andreotti) l’amico Aldo Moro. Papa Montini raccolse dieci miliardi per liberare il prigioniero, avvicinando i contatti dei brigatisti. Toni Servillo lo rappresenta con forza e costrizione fisica notevoli. Il cilicio, le flebo, le pieghe del volto, il dolore dell’uomo prima ancora di “sua santità”.
“Esterno notte” è un viaggio fantasioso nelle segrete stanze del potere, eppure realistico da toccare vette di iperrealismo sublime.
“Esterno notte” seconda parte si apre sulla fase preparatoria del sequestro di un importante uomo politico. Quello con la scorta più “debole”, senza auto blindata o semplicemente il bersaglio più alto della Democrazia Cristiana. Le Brigate Rosse negli occhi di Adriana Faranda, nelle parole di Valerio Morucci e nella irriducibilità di Mario Moretti ci portano all’ingresso nella clandestinità. Dunque agli albori dell’operazione Fritz. Adriana (ottima Daniela Marra) che sacrifica la figlia per la lotta armata: la gambizzazione di un “nemico del popolo”(resa con spietata efficacia dal regista) conduce dentro gli anni di piombo. Le discussioni tra compagni in cui emerge sempre più prepotente (gli incontri con il mediatore Pace, gli scambi di posizioni e coppia in piazza che raggiungono cinematograficamente le cose migliori de “Il caso Moro” di Giuseppe Ferrara), la spaccatura tra liberazione ed esecuzione della sentenza di condanna a morte dell’ostaggio. Il nocciolo della questione si consuma principalmente lì, anzi M. è già morto perché ritenuto pazzo tramite le sue lettere. La pellicola restituisce la speranza di liberazione attraverso i due fronti dei brigatisti e la cattolica ed osservante famiglia Moro (rappresentate dalle opposte ma umanissime Agnese e Maria Fida) che vede sgretolarsi la possibilità di rivederlo. Bellocchio palesa subito (fin dalla prima parte) le due letture: una realistica e una onirica. Nella visionarietà realistica le B.R. di Morucci sono un’avanguardia rivoluzionaria alla “Mucchio selvaggio” di Sam Peckinpah: la violenza giustifica il fine ma il suo ideale è romantico, alla ricerca della bella morte e alla Che Guevara. Altra cosa è la disciplina di Adriana, modulata da una umanità razionale: M. libero sarebbe scomodo. La lotta armata per disarticolare lo Stato per Moretti e compagni è solo all’alba. Invece ne sarà il culmine e la inesorabile discesa. La lettura onirica è data da un autore libero di pensarla diversamente: Cossiga, per esempio, vittima di incubi che sogna Moro liberato e dimissionario.
Bellocchio non sposa una tesi (nonostante la fondamentale consulenza di Miguel Gotor, presente anche in un cameo), ci dice però che la verità è già stata scritta ed “Esterno notte” è un capolavoro che spazza via tutta la letteratura complottistica che ebbe in Flamigni e Imposimato i massimi esponenti ed epigoni di sé stessi. Restano impresse alcune scene indicative come l’equivoco del finto Moro scambiato per vero (la paranoia e il clima febbrile di quei 55 giorni per il Paese, ostaggio tutto di una condizione). Il finto Moro è una rappresentazione teatrale del sequestro, sintomo di un evento già mitizzato e consegnato alla Storia senza ancora concludersi. Infine, Bellocchio recidivo, ritorna sul finale di quei tragici giorni accentuando alcune decisioni: lo Stato e i suoi grigi rappresentanti, insieme a Papa Montini trapassato in sedia gestatoria, celebrarono il funerale di Moro senza il feretro. Particolare inquietante che ci fa sobbalzare ancora e ci comunica l’avvio alle battute finali di una intera classe politica.
Nota di chiusura: la geometrica potenza registica è rafforzata dal montaggio di Francesca Calvelli, dalla fotografia di Francesco Di Giacomo e le musiche di Fabio Massimo Capogrosso.
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