Regia di Franco Brusati vedi scheda film
Raffinato e ricercato, intimista e metaforico, elegiaco e “pruriginoso” al tempo stesso, è in primo luogo un film sulla memoria che affronta tematiche abbastanza scabrose per l’epoca. L’elaborata ostruzione a flashback ne impreziosisce la struttura (ma lo rende adesso anche troppo “riconoscibilmente” datato).
Il tempo è stato piuttosto impietoso con questo film che a mio avviso e in ogni caso (nonostante le rughe degli anni che è impossibile non registrare) rimane una delle opere più importanti della non vastissima filmografia di Brusati (certamente fra tutte la più sentita e intimamente “vibrante”, quella dove si avverte maggiormente la partecipazione emotiva del suo autore). Dimenticare Venezia, ovvero dimenticare l’infanzia, si potrebbe dire, lasciarsi alle spalle il passato e con esso, i miti della giovinezza. “Crescere” e maturare insomma con il coraggio di guardare in faccia le “variazioni” imposte dalla vita e dall’esistenza, accettando la decadenza dell’età, la vecchiaia e la morte. Raffinato ed ricercato, intimista e metaforico, elegiaco e “pruriginoso” al tempo stesso, è in primo luogo un film sulla memoria anche abbastanza coraggioso nell’affrontare temi non particolarmente “conformi” per l’epoca, e molto elaborato nella sua costruzione a flashback che ne impreziosisce la struttura (ma che adesso forse lo rende per questo troppo “riconoscibilmente” datato). Le ascendenze ispirative (di pretta matrice mitteleuropea) sono evidenti e scoperte, come pure i riferimenti che rimandano soprattutto a Bergman e Visconti (ma è più la superficie a risultare affine che non l’effettiva profondità del contesto… poiché – e una rivisitazione attuale rende manifesta la cosa più di quanto non apparisse all’origine - Brusati – purtroppo per lui – non era né Visconti, né tantomeno Bergman, e il confronto finisce ovviamente per non deporre certamente a suo favore). Ci sono evidentemente altre assonanze, riscontrabili persino in sotterranee e labili suggestioni felliniane che affiorano a tratti, e tutti questi “apparentamenti” se creano un impatto decisamente coinvolgente al primo contatto, dopo una più attenta riflessione finiscono invece per determinare un certo disagio un po’ fastidioso. Per passare più esplicitamente alla storia, Brusati mette a confronto, in una villa della campagna veneta, alcuni personaggi legati fra loro da memorie o affetti particolari (“deviati”, si sarebbe detto allora, visto che si tratta di due coppie che hanno fra loro un rapporto di natura omosessuale – maschile e femminile – in un accostamento quasi simmetricamente “specchiato”): da una parte Nicky (Erland Josephson, una “scelta” che è già di per sé una indicazione “programmatica”) e il suo giovane compagno Picchio (l’esordiente David Pontremoli, presto sparito dalla scena); dall’altra le stanziali Anna (Mariangela Melato) e Claudia (la Giorgi). Su tutti, domina e “veglia” la figura materna della sorella di Nicky (Hella Petri) ex cantante lirica, la “chioccia protettiva” che è destinata suo malgrado ad assumere il ruolo catartico dell’elemento “destabilizzante”. non per diretta volontà, ma a causa della sua improvvisa e inaspettata dipartita che costringerà tutti quanti, di fronte alla morte, non solo a confrontarsi con il proprio passato, ma anche ad affrontare responsabilmente la condizione della propria esistenza abbandonando definitivamente le reticenze e i “paraventi” difensivi costruiti artificialmente e ormai definitivamente sfaldati. Maestro delle mezze tinte, sinceramente coinvolto negli abbandoni sentimentali che racconta, delicato e ironico al tempo stesso, pur con un eccesso di ridondanza (o ripetitività insistita che dir si voglia) e qualche pesantezza dovute a sottolineature un po’ scontate e grevi (la scoperta del sesso e i relativi sensi di colpa che ne conseguono, per esempio), il regista forse raggiunge i migliori risultati proprio nella seconda parte, una volta cioè che si è concluso l’excursus un pò risaputo delle fantasmagorie infantili. E’ singolare comunque sottolineare il forte consenso suscitato al suo apparire sugli schermi con giudizi complessivamente positivi, e, per contrapposizione evidente ma tutt’altro che casuale, il crescente aumento di coloro che storcono il naso di fronte a tanta esuberante ed esangue opulenza figurativa, ridimensionandone la portata e il senso, via via che passa il tempo. La ragione principale di questo “precoce invecchiamento” credo vada ricercata nella sceneggiatura (opera dello stesso Brusati e Iaia Fiaschi) un po’ artificiosa e fortemente letteraria (alcuni dialoghi oggi sonno oggettivamente poco credibili e ancor meno accettabili, o meglio condivisibili). Fra i pregi che il tempo non ha scalfito invece, c’è indubbiamente la fotografia che ben si coniuga con la straordinaria scenografia “naturale” che fa da cornice all’azione, l’eleganza figurativa dell’insieme, la raffinatezza della bella colonna sonora ad opera di Benedetto Ghiglia (con innesti di brani del Mercadante e di Gluck), e la qualità della recitazione, con in testa uno straordinario e dolente Josephson che applica al meglio la lezione imparata nei lunghi anni di attiva e produttiva frequentazione col cinema di Bergman, che qui, data l’affinità del clima, è fondamentale non solo per definire e rendere credibile il personaggio, ma anche per creare la giusta atmosfera. Lo coadiuvano la duttile partecipazione di una “ teatraleggiante”, ottima Mariamgela Melato e una efficace (seppure un pò manierata) Hella Petri. Più “defilati” (ma volonterosi e accorti, tutt’altro che disprezzabili insomma), Eleonora Giorgi e un acerbo Pontremoli.
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