Regia di July Jung vedi scheda film
26 ogni 100.000 abitanti. Questo il tasso dei suicidi in Corea del Sud negli ultimi anni. Il più alto tra i paesi sviluppati. Ma se si scompone questo dato si scopre che, di media, quello dei giovanissimi (10-19 anni) oscilla tra i 6 e i 7 (per non parlare di quello degli over 70 che si afferma stabilmente sopra i 40 e di quello degli over 80 stabilmente sopra i 60).
Per capirci: in Italia il tasso medio degli ultimi anni è stato di 6-7 persone ogni 100.000 abitanti, tra i giovanissimi intorno ai 2.
In Corea del Sud il suicidio è la prima causa di morte tra i giovani. Questo tremendo primato forma la base per l’ottimo film di Jung, di ritorno sugli schermi a 8 anni da A Girl At My Door. Altri film hanno in passato affrontato il tema della pressione inusitata esercitata sui giovani in paesi come la Corea del Sud (si veda ad es. Pluto), ma Next Sohee si afferma senza dubbio come uno dei migliori, condotto con rigore registico, senza eccessivi sentimentalismi ma con grande sensibilità.
Sin dai primi minuti si è catapultati in un’atmosfera angosciosa che ben rende il sentimento prevalente tra ragazzi sottoposti da ben prima delle superiori ad un tour de force terrificante di competizione brutale e sfrenata. Il carico di aspettative sociali – da quelle famigliari a quelle scolastiche – spesso conduce a depressione, stress e affaticamento, visto che è pure considerato normale uscire da scuola per poi passare l’intero pomeriggio in compagnia di un tutor o in una qualche scuola di preparazione in vista degli esami.
Bisogna essere sempre pronti a lavorare durissimo già nel periodo scolare, il che prepara a spaccarsi la schiena senza lamentarsi da adulti. C’è di più: il malato sistema di stage scuole-aziende (una specie di “alternanza scuola-lavoro” all’ennesima potenza) in cui si è catapultati e – ove mai si “osi” dimettersi per esaurimento – additati come fannulloni e falliti e addirittura, pare, “identificati” visivamente di ritorno a scuola con fascette o giubbotti colorati di modo da mantenere ben visibile “l’onta” 24 ore su 24. L’onta, va da sé, di non aver avuto la resistenza mentale di sopportare una semi-schiavitù a cottimo senza fiatare.
La regista si affida a due ottime interpretazioni, della rivelazione Kim Si-eun e della celebre Bae Doona, che riescono a rendere quasi tangibili la studentessa il peso crescente della depressione, dell’isolamento e della sensazione di mancanza totale di prospettive; la detective, d’altro canto, l’empatia umana che, nonostante tutto, almeno che non si sia corrotti senza rimedio, non può che creare malessere di fronte all’innegabile devastazione umano-relazionale prodotta da un intero sistema.
Il film è diviso nettamente in due parti, ma questo non è un limite, anzi: nella prima si segue il travaglio della singola persona, posta dinnanzi ad un mondo spietato che annichilisce individui più adulti di lei (il “Team Leader” Lee) e che, colpita nel profondo proprio dall’atto di Lee, finisce apparentemente per adeguarsi ad un sistema di bestiale sfruttamento istituzionalizzato (arrivando addirittura a superare i già assurdi obiettivi aziendali), salvo poi scoprire che non ne trarrà alcuna gratificazione; nella seconda parte, invece, si indagano a fondo le cause politico-sociali e istituzionali, appunto, che producono quel travaglio, per il tramite della risoluta poliziotta che non accetta di lasciar passare tutto sotto silenzio e soprattutto l’imperturbabilità e lo scaricabarile tra aziende e settori dello stato, tutti al dunque coinvolti in un sistema che premia solo ed unicamente la performance stremante, la quantità, il profitto. Una poliziotta all’inizio fredda – che ha incidentalmente conosciuto Sohee in palestra – e che nel vedere sullo schermo quel sorriso di una ragazza felice e piena di vita alla fine crolla, nel momento forse più lancinante del film.
La sopraffazione del più debole eretta a sistema. L’indifferenza verso il prossimo – o addirittura l’odio contro il più povero (un po’ come la retorica contro i presunti “divanisti” in Italia) – elevata a morale pubblica. “A nessuno frega un accidente”, come dice ad un tratto la detective, parlando del fastidio con cui spesso vengono trattati gli “invisibili”, quelli che fanno i lavori più faticosi e alienanti, e dei quali nessuno sembra curarsi neppure quando muoiono sul lavoro o per via del lavoro. E – anche per questo – ci sarà sempre un’“altra Sohee”.
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