Nel nome del padre. Senza più rabbia né rancore. Con lo smarrimento affettuoso e freddo, di una conversazione sempre interrotta o cominciata male, nell’imprecisione dei discorsi, nell’impotenza di far coincidere parole e sentimenti. All’ombra di quella figura incombente, che in ogni famiglia ha una sua identità, un suo peso, una sua storia, i figli sentono tutta la fatica del vivere, del crescere e di esplorare la propria coscienza. Questo è il problema: imparare a lavorare, a recitare (“Tre sorelle” di Cechov), ad addentrarsi, da soli, in quella zona dai contorni vaghi e mutevoli denominata “persona” o naufragare tra le insidiose correnti del dolore. Il padre morto di Zeno e quello vivo, con quella presenza rassicurante e quell’assenza insondabile dei simboli, delle quattro sorelle Malfenti, sono i depositari e i destinatari di tutte le parole che i figli non dicono. Francesca Comencini si ispira liberamente a due capitoli di “La coscienza di Zeno” di Italo Svevo e nel suo bel film si mette in ascolto delle voci interiori dei suoi personaggi. Una profonda, densa e penetrante lettura non tanto di un capolavoro letterario quanto delle risonanze dell’anima. In una Roma dove la coscienza si rapprende in una passeggiata, in un’effimera staffetta d’amore, in un tourbillon pacato, in appuntamenti mancati, in richieste non soddisfatte. Il tempo, intanto, gira in tondo e Zeno impara a riconoscere il valore del dubbio. Il cognome del padre, nel caso di Francesca e Chiara, fa rima con cinema.
Recensione pubblicata su FilmTV numero 23 del 2001
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