Regia di Francesca Comencini vedi scheda film
Ispirandosi a due capitoli di quel capolavoro della letteratura italiana (per anni fatto passare per romanzo psicanalitico, fregandosene che l’autore non aveva per niente intenzione di romanzare una psicanalisi) che è La coscienza di Zeno, Francesca Comencini e Francesco Piccolo decontestualizzano la morte del padre del protagonista e il racconto della sua introduzione nella famiglia della futura moglie creando un’unità cinematografica a sé stante. Dimenticare la fonte di Svevo è il primo passo per accettare un film piccolo e complesso come Le parole di mio padre, in cui non si possono capire, ma solo intuire, la condizione stonata del protagonista, il suo essere appellato come pazzo, il suo fare claudicante. Lo Zeno Cosini della fine del Novecento messo in scena dalla Comencini è un alienato romantico che lascia solo presagire l’inettutidine del suo corrispettivo di inizio secolo, alle prese, più che altro, da una parte con l’educazione sentimentale che lo vede legarsi in tre modi diversi alle tre figlie in età da marito di Giovanni Malfenti (la bella Ada, vero amore non corrisposto – ma fino a che punto – ed idealizzato; la nevrotica Alberta, seconda scelta impegnativa da cui viene respinto; e la dolce e bruttina Augusta, che l’ama da sempre) e dall’altra con i tentativi di liberarsi del fantasma del padre, il quale ha ritenuto opportuno mollargli uno schiaffo in punto di morte per manifestare l’insoddisfazione paterna. L’effetto della decontestualizzazione può piacere o no, ma è un’originale esplorazione del testo letterario. Difficile ed elegante, rapido nella sua velocità latente, supportato dalla bella musica di Ludovico Einaudi, può contare su un Fabrizio Rongione praticamente perfetto. Toni Bertorelli, nell’ingombrante ruolo del padre, è più un’assenza che una presenza. Dopotutto, considerando anche il personaggio di Malfenti impersonato da Mimmo Calopresti, è un film di padri da uccidere. Zeno involontario sessantottino? No, però ci sarebbe da riflettere.
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