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Animali selvatici

Regia di Cristian Mungiu vedi scheda film

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La recensione su Animali selvatici

di Peppe Comune
8 stelle

Dopo un periodo di lavoro in Germania, Matthias (Marin Grigore) torna nel suo paese in Transilvania. Il Natale si avvicina ma l'atmosfera è abbastanza pesante tra le diverse etnie che popolano la comunità. E poi l’uomo si trova a dover affrontare diverse situazioni inaspettate. Il piccolo figlio Rudy (Mark Blenyesi) non parla più da quando è rimasto terribilmente scosso dalla visione di qualcosa nel bosco. Gli è vicino per recuperare i mesi trascorsi all’estero, aiutandolo a superare la paura e a crescere secondo i metodi dell'uomo virile. Il padre Otto (Andrei Finti) è sempre più anziano e sempre più malato. Con la moglie Ana (Macrina Bârlâdeanu) le cose non vanno bene, si tollerano a vicenda solo per il bene del figlio. L’ex amante Csilla (Judith State) ha per lui solo attenzioni sessuale. Intanto è diventata una delle dirigenti del locale pastificio, un'azienda che può dare lavoro a molte persone. Ma offre stipendi che gli abitanti del luogo  non sono disposti ad accettare. Per questo motivo al paese arrivano per lavoro dei cingalesi la cui comunità si fa sempre più nutrita. È quanto basta per far crescere una rabbia irrazionale contro lo straniero. Simile alla paura che è sempre esistita per gli animali selvatici che abitano nel bosco circostante.

 

Marin Grigore

Animali selvatici (2022): Marin Grigore

 

Prima che finiscano i titoli di testa, una serie di carrellate a precedere e a seguire riprendono mantenendo sempre la stessa distanza il passo di un bambino che si incammina dentro un bosco. Ad un certo punto il bambino si ferma e la macchina da presa insiste per diversi secondi su un primo piano del suo volto atterrito mentre guarda qualcosa fuori campo. Poi scappa spaventato uscendo dall’inquadratura. Cosa ha visto il bambino da terrorizzarlo così tanto ? La domanda insinuata con forza dal fuori campo si fa più insistente durante tutto lo sviluppo del film, quando veniamo a sapere che da quello spavento il bambino ha volontariamente perso l’uso della parola e si rifiuta di andare a scuola da solo.  

L’incipit di “Animali selvatici” di Cristian Mungiu mette subito le cose in chiaro, non tanto rispetto a ciò che vuole raccontare, ma su come intende farlo. Perché, ben aldilà della sua linearità narrativa, la forza del film sta nel suo investire su ciò che incute paura per il solo fatto di trovarsi fuori dal novero delle cose conosciute, e quindi verificabili, e oltre il campo del visibile e quindi controllabile.  

Al centro del film c'è l’esistenza di un panificio che dà lavoro a tanta gente. Il motore della narrazione diventa perciò un aspetto tipico del mondo contemporaneo relativamente alle dinamiche lavorative. Le dirigenti del pastificio devono rimodulare il piano produttivo dell'azienda per poter accedere a dei fondi europei. Il pastificio può e deve assumere altro personale, ma la paga non è un granché e quindi gli unici disposti ad accettare l'offerta di lavoro sono solo le donne e i cingalesi portati in Romania dai fisiologici flussi migratori. Ecco, intorno alla chiarezza descrittiva di questo espediente narrativo, Cristian Mungiu, nel dare una forma concreta alla sensazione di paura che è nell'aria, percepita in quanto parte ormai conclamata del quadro sociale esistente, insinua delle riflessioni sulla natura più nascosta di questa paura, da dove proviene esattamente e da chi o cosa è veicolata. 

Le dinamiche che sostanziano le sorti economiche del mondo globalizzato sono sempre più liquide e le persone sono chiamate a dotarsi di un sempre più agguerrito spirito competitivo per reggere il passo. In questo quadro di generalizzata precarietà esistenziale, per ogni singola persona diventa più facile diventare ostile di qualcuno e questo qualcuno è sempre quello che nella gerarchia sociale occupa la posizione più debole e sacrificabile, quello contro cui, chi sta anche solo un gradino sopra, può scaricare più impunemente le proprie insicurezze e frustrazioni. E di questo disegno sociale Mungiu offre uno spaccato emblematico presentandoci la vita di una piccola cittadina rumena dove va in scena la più classica guerra tra poveri : tra chi ama sentirsi padrone assoluto a casa propria e chi è avvertito come una minaccia rispetto alle poche cose che si posseggono. Una guerra che nasce dalla difficoltà a riconoscere l'altro da sé in un mondo che utilizza i flussi migratori per alimentare il ricambio ciclico della forza lavoro sottopagata. 

L’autore rumeno lo fa equilibrando con maestria due distinti modalità narrative. Da un lato riferendosi con estrema precisione descrittiva a quanto di più triviale possa scaturire nel genere umano dal pregiudizio praticato con impavida ignoranza. Bella ed emblematica è tutta la scena in cui viene ripresa la riunione cittadina indetta per decidere della sorte dei cingalesi che lavorano al pastificio. La macchina da presa rimane fissa per tutto il tempo. Le persone e le voci entrano ed escono dall'inquadratura, accumulano notizie che non hanno alcun bisogno di essere veicolate verso un senso predefinito. Sono chiare e dirette. Come a sacralizzare le esplicite manifestazioni di razzismo condite dal più classico “non abbiamo nulla contro queste persone, purché se ne stiano a casa propria”. Un razzismo che nasce più dall’ignoranza (come quando vengono etichettati come musulmani solo perché sono di pelle nera quando invece sono di religione cristiana) che da una comprovata cattiveria, praticato più per inerzia creativa che per spirito volontaristico. Un razzismo che proprio per questo è culturalmente più pericoloso. 

Dall’altro lato, Cristian Mungiu usa la grammatica del fuori campo per dare delle soluzioni visive alle tante domande che rendono irrisolvibili le paure è difficile la convivenza tra persone di diversa etnia. In quest'ottica, ritorna a fare da sfondo un tema centrale a tanto cinema rumeno, ovvero, quel rapporto tra vecchie nuove generazioni che vuole rappresentare lo scarto esistente tra un paese ancora irrisolto e un altro che si adegua con colpevole passività all’andamento globale delle cose. E l’intero paese che partecipa emotivamente allo strazio di un suicidio sta proprio lì a certificare la dissociazione acclarata tra la capacità istintiva di ogni singola persona di provare una reale compassione e la loro somma che non sa farsi comunità solidale. 

A corollario di tutto ciò c’è una frase che il padre pronuncia al figlio nel mentre tenta di fargli superare lo spavento che lo ha indotto al mutismo volontario : “Non ti avvicinare mai ad un animale selvatico senza un’arma”. A mio avviso, secondo quanto ci è stato offerto da Cristian Mungiu, resta da definire chi più esattamente può essere questo disprezzato essere selvatico : chi si è spinto ad errare per trovare di che vivere o chi si sottrae alle sfide del mondo limitandosi ad accodarsi alla legge del più forte per difendere le sue posizioni di comodo ? L’animale che vive con naturalezza ciò che gli offre il suo ambiente di vita o l’uomo che forza la natura per aumentare i suoi spazi vitali ? 

Domande che passano in filigrana lungo lo scorrere del film. Ovvero, la grandezza del cinema e di chi sa sfruttarne al meglio le potenzialità espressive. 

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