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Animali selvatici

Regia di Cristian Mungiu vedi scheda film

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Questo testo contiene anticipazioni sulla trama.

La recensione su Animali selvatici

di laulilla
10 stelle

Uscito nel luglio di quest’anno nelle nostre sale, questo bellissimo film fu presentato a Cannes nel 2022, dove, come sappiamo, non vinse la Palma d’oro, assegnata, non senza polemiche, a Triangle of Sadness.

Inutile tornare su vecchie polemiche, ma sicuramente la distribuzione italiana di Animali selvatici, che avrebbe meritato quella Palma, ne risentì: un anno di ritardo nei nostri cinema e per di più nel corso dell’estate rovente di quest’anno.

Per mia fortuna, almeno per un giorno, è stato ricuperato dal Museo del cinema di Torino, dove, in una sala gremita, ho potuto vederlo.

 

Avrebbe dovuto chiamarsi, come nell’originale, R.M.N. sigla che immediatamente evoca, per consonananza, la Romania. 

Il regista ha precisato, invece, che si tratta dell’ acronimo della Risonanza Magnetica Neuronale, ovvero della scansione cerebrale che vediamo in una scena di questo film, nel quale le condizioni del disagio psico-sociale in un angolo remoto della Romania Mungiu analizza – scansiona – minutamente, fino a farle diventare metafora della frammentazione – atomizzazione – disgregazione di un milieu sociale, forse non troppo diverso dal nostro.

 

Il racconto del regista è a sua volta frammentato, adeguato al soggetto: prende le mosse dal ritorno nella Transilvania rumena, nel villaggio montuoso da cui era partito, di Matthias (Marin Grigore), uomo di mezz’età di etnia rom, che lavorava in un mattatoio nella Germania orientale dov’era stato insultato dagli addetti trasporto degli animali macellati, e costretto a fuggire, dopo aver reagito violentemente.
Un lungo viaggio in treno, quindi l’arrivo al poco abitato villaggio natio - ai piedi dei Carpazi, fra i boschi - di cui, un po’ alla volta, nella prima parte del film, il regista lascia emergere gli incerti contorni: pochissimi i residenti giovani (molti, come Matthias aveva fatto, se n’erano andati a lavorare altrove) rimasti lì per vivere grazie alle risorse assicurate dai finanziamenti europei dopo la pandemia.

Ciascuno in quel villaggio – dopo il disgregarsi dell’impero asburgico  (1914/1918) e dopo la disfatta nazista – è gravato e schiacciato dal peso del passato. Ciascuno, infatti, vanta stoltamente la propria appartenenza etnica e mal tollera – spesso odia – gli altri: così i rumeni, così gli ungheresi – accomunati però dall’odio per i Rom, condiviso per altro da pochi luterani di lingua tedesca.
La comunità del villaggio è fragilissima, sempre pronta com’è a dividersi ulteriormente, inventando nuovi nemici da insultare, odiare, forse uccidere, né l’unica chiesa può ingannare: un solo prete la concede per gli usi più diversi: li si può imparare musica, li tutti – non gli Ebrei, sterminati dai nazisti – possono pregare, assistere alla messa (cattolica? ortodossa? luterana?), lì ci si riunisce per le assemblee collettive…

In questo bell’ambientino di ipocriti dalla faccia pulita e dagli istinti feroci, Matthias, ritrova un padre malato di narcolessia, la moglie Ana(Macrina Barladeanu) che non lo ama e non lo vuole in casa e il figlioletto Rudi (Mark Blenyesi),  che non parla più dopo essersi spaventato nel bosco che quotidianamente attraversa per andare a scuola, costringendo Ana ad accompagnarlo in auto.

 

Matthias un tempo amava Csilla (Judith State), che ora non ha tempo per lui: suona il violoncello anche per la chiesa e manda avanti un panificio in cui lavorano alcuni panettieri cingalesi, assunti secondo le norme previste dalla CEE. Essi, innocenti senza colpe, catalizzano la xenofobia e il razzismo degli autoctoni, che dopo una serie di discussioni, incontri e assemblee pretendono il loro allontanamento.

 

 

 

 

In un crescendo di rancore e di rabbia, la “scansione” del regista ci lascia intravedere gli aspetti più oscuri dell’animo dei residenti del villaggio, in cui, tra paure assurde e insensate, rinfacci minacciosi, contraddizioni e opportunismi, nessuno è davvero senza colpa, neppure Ana, neppure Csilla, neppure il piccolo Rudi che l’innocenza l’ha persa da quando Matthias gli ha insegnato che per non avere paura nel bosco è meglio armarsi ed essere pronti a sparare nel mucchio, senza pietà… 

 

La colonna sonora del film sottolinea la confusione dei linguaggi e la loro intercambiabilità: tutto diventa ballabile, le danze di Brahms come Bella ciao, mentre l’aura dolcemente malinconica della musica che accompagna l’amore incompiuto di “In the mood for love” assume per Csilla il valore di un sogno nel cassetto che non si può realizzare.

 

"...nella rappresentazione perfetta e misteriosa di questa dislocazione confusa – siamo tutti romeni, zingari o dello Sri Lanka in modo interscambiabile – risiede la grande riuscita del film"

Così Francesco Boille su Internazionale - 21 luglio 2023.

 

 

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