Regia di Hlynur Palmason vedi scheda film
Fine '800. Dalla Danimarca un prete parte alla volta dell'Islanda. Là, insieme ad alcuni fidati compagni, dovrà raggiungere un'impervia zona dell'entroterra ed erigere in tale luogo la sua chiesa. L'impresa è disperata fin da subito; il clima ostile, la natura inospitale e i dissidi fra i membri della spedizione la rendono ancora più difficile.
L'operazione cinematografica è di per sé intrigante: elegante, molto ben architettata e portata a termine con encomiabile cura dal regista islandese Hylnur Palmason, che risulta anche l'autore unico del copione del film. Ma al di là della raffinatezza della confezione, delle efficaci luci naturali e dei panorami da sogno o più spesso da incubo; delle inquadrature ricercate e del montaggio 'disteso'; della recitazione in levare, sempre sotto le righe, e della narrazione gravida di tensione, sempre pronta all'accesso emotivo (che comunque, prima o dopo, arriva sempre); al di là persino della scelta di dare al lavoro un peculiare taglio fotografico quadrato, che fa così retrò sebbene non comporti nulla sul piano logico, ecco che Godland – Nella terra di Dio non sembra avere granché da offrire. Un'opera ricercata, indubbiamente, sofisticata: ma gli argomenti sono scarni e rimangono troppo spesso indietro rispetto alla ricerca estetica. Palmason è al suo terzo lungometraggio e proprio con questo titolo vincerà premi attorno al mondo, da San Sebastian a Chicago, ottenendo anche una candidatura per il prestigioso A certain regard di Cannes; fa buona impressione il protagonista Elliott Crosset Hove, ma lo sbadiglio permane costantemente il pericolo numero uno per le smisurate due ore e mezza di durata del lavoro. Curiosità: il titolo originale Vanskabte land suona piuttosto come “la terra della deformità” e non di Dio. 4/10.
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