Regia di Hlynur Palmason vedi scheda film
Tutto ok, ma sentiamo che manca qualcosa.
Sinossi
Fine Ottocento, l'Islanda è sotto il controllo danese.
Lucas è un giovane prete ricco di vocazione e buone intenzioni a cui il Vicario del Signore assegna, a inizio film, l'incarico di recarsi sull'isola per documentare con delle foto la vita degli abitanti locali e costruire una chiesa.
Dell’occasione del film siamo informati da didascalie che raccontano del ritrovamento in Danimarca di foto scattate in passato, forse da un prete o da qualche contadino.
Lungo il percorso Lucas perderà vocazione e chili di peso, la Natura si riprenderà il suo primato e il titolo, Terra di Dio, suonerà tragicamente vero.
_______________________
Quando, a circa un’ora dall’inizio di questo fluviale film di 143 minuti (e fiumi infatti ce ne sono parecchi) un personaggio chiede al prete Lucas (Elliott Crosset Hove) perchè non abbia percorso la via più breve per arrivare alla meta, costringendo il suo seguito a fare una traversata lunga e pericolosa, il prete risponde con angelica innocenza :”Perché volevo conoscere il territorio”.
Lo spettatore, a quel punto, non sa più cosa pensare e infatti smette di farlo, irretito com’è dal fascino di una natura che in Islanda mostra tutta la sua agghiacciante potenza: monti, fiumi, ghiacciai, vulcani in eruzione, brulle distese di terre disabitate,formazioni rocciose, texture tattili dove la presenza di Dio è forte, nel senso che solo un Dio potrebbe abitare in quelle terre incontaminate e durissime.
Come Lucas, anche noi ora conosciamo quell’isola, dove si consiglia di andare solo con guide ragionevoli.
Affidarsi altrimenti ad un buon documentario del National Geographic, lo scopo è raggiunto lo stesso e delle paranoie di Lucas e compagni non se ne saprà nulla.
Infatti gli uomini che si muovono nel film, pochi e al minimo delle risorse di vita e di intelletto, fatta eccezione per l’abilità nel costruire strutture lignee e suonare la fisarmonica, sembrano trovarsi all’ultimo scalino della scala evoluzionistica, con vite che il regista non si cura di indagare, lasciando allo spettatore domande irrisolte del genere “Ma questi che vita fanno?”, “Che ci fanno là oltre che governare mucche e galline?”.
C’è un padre che sembra la figura dominante della comunità fantasma, non si vedono case nel giro di chilometri; due figlie, di cui una in età da marito, ma il padre non vede di buon occhio Lucas, il prete protestante che potrebbe anche impalmare la ragazza ma lui no, è contrario. Gelosia paterna? Chissà. I due giovani faranno comunque conoscenza in senso biblico senza il permesso del padre nell’oscurità totale di un fienile, e anche di questo risvolto sentimental/sessuale restiamo sostanzialmente all’oscuro.
Nulla che scavi anche solo un po’ nella psiche dei personaggi, vivono lì come costretti da una forza superiore, quella del regista Palmason che li muove come pedine di un misterioso gioco a scacchi, mute e distanti, salvo, all’improvviso, trascinarle nel vortice della violenza pura o della morte.
Il prete, figura enigmatica, cosa lo spinge? Ambizione? Bisogno di martirio? Autentica vocazione? Altro? Nulla che suggerisca una chiave di lettura, certo è figura sgradevole, un missionario molto sui generis.
Smagrito e febbricitante, senza che si capisca il perché di questo processo inesorabile di consunzione, arriverà alla fine dei suoi giorni senza aver concluso nulla, ma in compenso noi abbiamo goduto con lui di scenari meravigliosi e prese coraggiose decisioni a proposito di dove andare con il prossimo viaggio organizzato.
Forse, ipotizziamo, tutto nasce dall’amore viscerale di Palmason per il suo Paese. Non smette mai di dirlo, la ragazza più grande anela andarsene in Danimarca (una delle poche cose che dice), ma crediamo che non lo farà mai, sui titoli di coda scoppia un coro potente che illustra le bellezze della Danimarca, insomma, ci chiediamo, la povera Islanda che male t’ha fatto?
Tanto male che il povero Lucas, ben motivato dalla sua vocazione a compiere la missione assegnata dal Vicario mangiatore di uova sode che vediamo all’inizio, la perderà per strada costretto dalla natura ostile.
Se questo è fare cinema bisogna che rivediamo qualche parametro fondamentale.
Ma nutriamo poche speranze, se il critico di Sight and Sound scrive: “Le notevoli virtù del film, che vanno dalla fotografia paesaggistica mozzafiato alle performance abitate da un cast impeccabile, mostrano che Pálmason sta lavorando al massimo delle sue capacità”. Bene, questo è il massimo delle sue capacità.
Senza esagerare in critiche distruttive, riconosciamo l’ottima costruzione degli scenari naturali ripresi con dovizia di tecniche fotografiche, la minuziosa cura del particolare, come il lungo primo piano della piccola mosca che scorrazza sulle ciglia della fanciulla addormentata; il focus sulla brocca poggiata sul davanzale di una finestra; due mani che si stringono furtive; gocce che scivolano sulla roccia lavica.
Però non può bastare.
L’ottima fotografia, la scelta di restringere lo schermo a 4/3 per restare coerenti con le vecchie foto d’antan, il controllo della luce, tutto rende la visione attraente, e anche la lentezza spasmodica nella ripresa di alcune scene ci può stare, in Islanda il tempo perde consistenza, convenzione che mal si attaglia ai ritmi della natura.
Tutto ok, ma sentiamo che manca qualcosa.
Forse è la voce profonda del cinema, quello spirito che esce dalla lampada di Aladino e si dichiara.
Da dove viene? Questo non lo sapremo mai, lo sa qualche artista, Tarkovskji, Fellini, Dreyer… ecc. , l’elenco è lungo ma forse Palmason non compare.
www.paoladigiuseppe.it
Non ci sono commenti.
Ultimi commenti Segui questa conversazione
Commenta