Regia di Davy Chou vedi scheda film
In Corea del Sud molti bambini vengono abbandonati alla nascita mentre la cultura locale, refrattaria all’adozione, spesso non garantisce il calore di una famiglia. Alla base di “Ritorno a Seoul” del regista franco-cambogiano Davy Chou vi è, dunque, una realtà stratificata e dolorosa già raccontata, anche se con stile diverso, dal regista giapponese Kore-eda Hirokazu in “Broker”, visto nelle sale italiane lo scorso autunno.
Davy Chou si è ispirato alle vicende di un’amica con la quale condivide la nazionalità e l’origine asiatica. Freddie, venticinquenne francese, trova i propri genitori biologici nella natia Corea del Sud. Come molti altri bambini è stata adottata all’estero ed ora si ritrova a dare un senso a tale avvenimento. La Corea del Sud è un paese ricco ed esportatore di tecnologie tuttavia è paragonabile ai paesi del terzo mondo per quantità di bambini mandato all’estero. Tale primato è dipeso da molti fattori: la facilità con cui le madri-single si liberano di bambini indesiderati a causa dello stigma sociale a cui sono sottoposte, la mancanza di aiuti economici a loro favore per tenere i nascituri e, non meno importante, la consuetudine storica maturata con la guerra di Corea alla fine della quale fu stipulato un accordo tra Seul e Washington per favorire le adozioni internazionali verso Stati Uniti. La guerra, infatti, aveva provocato parecchie vittime e lasciato sul campo ancor più orfani a cui nessuno era in grado di prestare aiuto in quella precisa fase storica. Il paese era allo stremo ed il boom economico ancora lontano. Chiusa nei decenni successivi l’emergenza bellica le associazioni caritatevoli, che si occupavano di adozioni, continuarono il loro lavoro favorendo l’espatrio dei bambini verso gli Stati Uniti approfittando di una regolamentazione blanda e assai “flessibile”. Benché le condizioni del paese si fossero progressivamente trasformate il boom delle adozioni da un paese all’altro si ebbe negli anni ‘80. Negli anni seguenti le cose cambiarono, spesso grazie all’apporto di associazioni di coreani "americani" che tornati in Corea si batterono per impedire ulteriori adozioni al di fuori del paese. La regolamentazione recente del governo di Seul ha reso le adozioni verso l’estero più complicate garantendo maggior tutela alle madri e ai bambini. Il rovescio della medaglia si intuisce nel film di Kore-eda. Lo stop alle pratiche internazionali ha riempito a dismisura gli orfanotrofi perché, venuto meno il flusso verso l’estero, non vi è stato un numero sufficiente di adozioni interne.
Sono le questioni culturali su cui il governo dovrà lavorare in futuro per invertire la tendenza. In Corea avere un figlio al di fuori del matrimonio è assai disdicevole e al contempo i legami di sangue sono talmente fondamentali per la cultura coreana da rendere pressoché nullo il ricorso all’adozione di quei bambini che vengono riposti nelle “ruote”. “Broker” insegna. Le coppie che ricorrono all’affido, per evitare il dileggio sociale, sono costrette ad acquistare dei kit per fingere la gravidanza. Spesso, se la condizioni di infertilità è nota, la coppia preferisce divulgare il pettegolezzo della relazione adulterina piuttosto che sopportare il disprezzo e l’esclusione sociale dovuti alla mancanza di legami di sangue con il figlio. Una volta finiti negli orfanotrofi (al collasso) per il bambini coreani non vi sono molte speranze di fuga e solo i “clandestini”, quelli “trattati” dai malandrini di Kore-eda hanno la possibilità di accasarsi con maggior facilità, nel più assoluto riserbo.
Se i bimbi di oggi non trovano casa i molti bambini di ieri che riuscirono a trovarne una all’estero sono condizionati dalla mancanza di un legame saldo con la società che li ha cresciuti. Nel film di Davy Chou le criticità di vivere in un luogo ma appartenere ad un altro sono espresse da Frédérique Benoit a cui il regista si affida per raccontare una ribellione esistenziale ed un feroce spaesamento che si manifesta in azioni riprensibili. Fin dall’inizio Freddie ci appare scostante e viziata. Non esita ad umiliare il ragazzo con il quale è andata a letto e l’amica conosciuta alla reception di un alberghetto. Identica sorte tocca al padre biologico che sbatte fuori dalla sua vita a calci in culo. Ci sono, tuttavia, delle attenuanti che ci invitano a riflettere. La ragazza affronta in modo troppo superficiale il percorso di ricerca dei genitori e non conosce la Corea ed i suoi costumi. In modo inconscio Chou convince il suo pubblico a regalare alla ragazza una nuova possibilità dilatando il racconto ai successivi 8 anni. Riprende il viaggio sospeso nel tempo coreano di Frédérique, il cui nome è Yeoh-hee, ma l’impressione rimane la stessa ovvero quella di una giovane donna inquieta, insoddisfatta, ingrata che ha cambiato lavoro, capelli, gusti ma non la sostanza. Non risparmia umiliazioni ai propri fidanzati mentre cova dentro di sé la rabbia per un ripudio materno inteso come affronto perpetrato alla sua persona anziché gesto di rifiuto e abbandono. Ad un certo punto il regista ci propone un finale che potrebbe essere il naturale capolinea di un percorso di crescita. La sequenza, tra l’altro è stupendamente straziante tra lacrime e mani che si arrendono all’istinto. In realtà Chou ha in serbo un ulteriore sorpresa che non comprendo e suona come un inutile accanimento oppure una sadica lezioncina moraleggiante per chi ha cercato altrove ciò che già aveva a disposizione. Perché mai chiudere con una mail ritornata al mittente? Ho conosciuto qualche giovane adottato. Il percorso pregno di domande fatalmente senza risposta è comune. C’è chi lo supera con maggior facilità, c’è chi fa più fatica, un po' come succede a Yeom-hee. Andarci a sbattere contro è necessario per capirsi e comprendere il proprio passato. È già sufficientemente difficile così senza messaggi rispediti al mittente da un'azione premeditata che suona come un nuovo abbandono. Davy Chou sembra punire Yeoh-hee, una ragazza meschina che nasconde dietro una maschera di caparbietà tutta la propria fragilità. Per me il film si chiude nell’abbraccio scandito dai singhiozzi tra una una donna ed una ragazza. Finisce con quell'incontro. Magari l'unico. A dispetto di un finale discutibile "Ritorno a Seoul" è senza dubbio un buon film in cui troneggia la giovane attrice Park Ji-min il cui trasformismo esteriore racconta di un personaggio interessante nelle sue molteplici sfaccettature.
Cinema Teatro Santo Spirito - Ferrara
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