Regia di Tarik Saleh vedi scheda film
Parla del Potere, il film, e "... temprando lo scettro a' regnatori, gli allor ne sfronda, ed alle genti svela di che lagrime grondi e di che sangue"
La casta intoccabile dei potenti di Omicidio al Cairo (The Nile Hilton incident 2017) è sempre all’opera nella difesa del suo spazio di manovra anche in quest’ultimo lavoro dello svedese di origine egiziana Tarik Saleh, autore a cui la distanza prospettica dal suo Paese d’origine dà la forza di uno sguardo coraggioso e lucido, non neutrale ma neppure di parte.
E’ lo sguardo severo di chi ha visto fallire tutti gli ideali libertari della primavera araba, calpestati dalla gramigna che da ogni parte è rinata a soffocare i buoni germogli, e ora cerca i sopravvissuti fra le macerie.
Non più un omicidio, thriller a sfondo chiuso fra pareti lussuose e scandali privati, ora è una cospirazione fra i poteri forti, serpe che striscia e s’insinua, scompiglia tutte le carte e nel caos che ne deriva trova alimento per il suo veleno.
Questa volta Tarik Saleh espande il suo occhio cinematografico per includere un mondo complesso, stratificato, dove gli estremi si toccano per poi separarsi in maniera netta.
Parte dalla realtà, Saleh, ma sale a livello di allegoria quando le vicende narrate diventano rispecchiamento di un ordine (ma forse è meglio dire disordine) delle cose che supera i confini di uno Stato, una religione, un’etnia.
Qui i due poteri canonici, quelli che dovunque nel pianeta decidono l’assetto mondiale dei popoli, sfruttano la loro debolezza, li condannano ad una miseria endemica, sono nemici/alleati, corrotti e intenti a giochi di ruolo in cui ogni mezzo è lecito pur di conservare il Potere.
Sulla scacchiera le pedine si muovono secondo la convenienza dell’uno o dell’altro, Stato e Chiesa si sorreggono a vicenda come sempre dall’alba dei secoli.
Le sembianze che prendono cambiano nome e liturgie, la sostanza resta la frase cinica e realistica del generale (lo Stato espone sempre i suoi gioielli, servizi segreti e apparati militari) in chiusura del film, prima del finale salvifico da cui era partito:
“Il potere è un’arma a doppio taglio, può anche ferire la mano che la stringe”.
Il mare e la barchetta del pescatore aprono e chiudono la storia.
Adam, figlio di un povero pescatore, divenuto studente della più prestigiosa scuola coranica del Cairo che l’ha scelto per la sua intelligenza facendogli balenare la possibilità di un futuro brillante, scoprirà a sue spese di essere solo la pedina da sfruttare in un mondo di corruzione e intrighi.
Figura dolente e sacrificale, Adam è coprotagonista con il carismatico colonnello Ibrahim, uomo di potere da cui dipenderà la sua sopravvivenza, interpretato da Fares Fares, il bravo attore egiziano naturalizzato svedese già protagonista del magnifico Omicidio al Cairo,
Il vortice in cui Adam precipita e che quasi lo porterà alla morte è magnificamente reso dal ritmo sempre più incalzante delle scene, è come se il cuore di quella società fosse entrato in fibrillazione, difficile tener testa al veloce susseguirsi e sovrapporsi di eventi: gli “infedeli” chi sono? le autorità politiche, gli apparati governativi, chi dovrebbero tutelare, rappresentare?
Qualche soluzione di sceneggiatura a questo punto non perfettamente risolta forse era inevitabile, il ritmo si fa caotico, ma non è nel caos che si perdono i contorni del giusto e del vero?
All’apparenza una spy story, Cospirazione al Cairo è molto di più, è un coraggioso j’accuse di centri di potere corrotti e intoccabili, protetti e garantiti nella loro inattaccabilità da un sistema che autoriproduce i suoi anticorpi, basta vedere il fanatismo di giovani indottrinati fin dall’infanzia, protagonisti di gare di preghiera, proni a terra cinque volte al giorno rivolti alla Mecca, giovani chiusi ad ogni apertura al mondo, sulla cui bocca “la pace sia con te” , rituale formula di saluto continuamente pronunciata, suona beffarda.
Ma ancora, basta vedere le riunioni oceaniche, che Saleh inquadra dall’alto, di masse osannanti il Grande Imam. L’uso strumentale della massa è noto a tutte le latitudini, orizzonti a perdita d’occhio di piazze gremite fino a scoppiare sono scenari consueti in ogni Continente.
Moschee e scuole coraniche che dietro lo splendore degli arredi sacri nascondono celle e segrete di medievale memoria, nulla hanno da invidiare ai nostri severi castelli, alle regge che grondano oro, ai sotterranei di Palazzi Ducali in cui marcire o passare direttamente al patibolo.
E allora, fortunosamente salvata la pelle, ad Adam non resta che tornare al mare, figlio di pescatori è questo il suo destino, ma alla fine diventa anche la sua scelta.
E’ un ritorno alla purezza evangelica delle origini, agli orizzonti infiniti, ai valori famigliari.
Quadri di ipnotica bellezza compositiva, scorci di strade e quartieri dove la vita sembra fervere libera e produttiva e invece nascondono visceri verminose, polluzione tragica del Potere in ogni sua incarnazione, inducono in chi guarda riflessioni molto amare su vicende ben note, su una giustizia che tarda ad arrivare e forse non arriverà mai, su nomi di vittime sacrificali su cui si può solo piangere.
Tornare al mare, dunque, regno della libertà, dove l’unico potere è quello del pescatore che libera il pesce dalle maglie della rete
www.paoladigiuseppe.it
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