Regia di Kelly Reichardt vedi scheda film
Disseminato da centri sparsi di accumulo di potenziali elastici sempre sul punto di liberarsi con esiti disastrosi, alla fine ricomposti nella scena finale dello scampato pericolo di un librarsi fausto di ali ferite, di un rapporto tra amiche-nemiche che può continuare il suo naturale percorso sotto la buona stella di un cielo guarito.
Lizzy sembra alla ricerca di un difficile equilibrio tra ispirazione artistica e insoddisfacenti relazioni personali, quando la tensione accumulata fino a quel momento, si dissipa con la naturalezza del librarsi di un piccione ferito a conclusione della sua tanto agognata esposizione d'arte figurativa.
Come fare bella mostra di...sé
Nella sua personale collezione campionaria di donne in cerca di identità e di affermazione, mancava forse alla Reichardt quella dell'artista alle prese con l'incompiutezza della propria ispirazione, quale riflesso di una condizione esistenziale e relazionale che, non meno della manipolazione artigianale della materia, è alla continua ricerca di strumenti e tecniche con i quali trattare in maniera adeguata la complessità di un mondo sempre più sfuggente e indecifrabile. Nato come un soggetto ispirato alla biografia dell'artista canadese Emily Carr, a detta della stessa regista è poi virato verso una rappresentazione di un mondo (quello che ruotava attorno alla prolifica Oregon College of Art and Craft) in cui il trito stereotipo del genio artistico viene derubricato nella quotidiana fatica del vivere e fare arte (quindi non del solo vivere per fare arte), nel duro affinare una competenza artigianale che sublimi la naturale incertezza della propria ispirazione, sempre un passo indietro rispetto alle imprevedibili e ingovernabili vicissitudini della vita con le quali bisogna pure fare i conti. Come nella plastica ricostruzione delle ceramiche di Cynthia Lahti (amica dell'autrice e ispirazione della figura della protagonista), il miracoloso equilibrio estetico delle imperfezioni del vivere si riversa nella apparente contraddittorietà di manufatti che assommano una galleria di sghembe figure femminili, talvolta monche ed in pose innaturali, ma sempre affascinanti nella resa cromatica e figurativa, espressioni come afferma la stessa autrice di quella "discrepanza tra superficie e sostanza, aspettativa e risultato" che rende ancora più sbalorditiva e carica di mistero l'umana esperienza di un meccanismo dell'esistenza che continua a funzionare non ostante tutto. Un inno se vogliamo, anche alla resilienza ed all'abnegazione che questa continua ricerca di equilibrio comporta, qui incarnati con grazia sublime dalla solita straordinaria figura di donna impersonata da Michelle Williams, vessata e bistrattata da più parti (dall'amica-collega e padrona di casa, come dalla madre autoritaria o da collaboratori faciloni) ma sempre in possesso di una stoica fede nella bellezza del mondo, sempre in grado di farsi carico delle sofferenze degli altri, sempre in grado di trovare la quadra di una difficoltà dell'esserci (del mostrarsi appunto) che presto o tardi trova una sua risoluzione ed un suo sbocco naturale. Un racconto all'apparenza lineare e minimale, come sempre nei film della Reichardt, ma come sempre attraversato da una sottile tensione, o meglio disseminato da centri sparsi di accumulo di potenziali elastici sempre sul punto di liberarsi con esiti disastrosi, ma alla fine ricomposti nella meravigliosa scena finale in cui lo scampato pericolo di un librarsi infausto si risolve nel volo libero di ali ferite, di un rapporto tra amiche-nemiche che può continuare il suo naturale percorso sotto la buona stella di un cielo guarito. Candidato alla Palma d'oro al Festiva di Cannes 2022 e vincitore dell'Independent Spirit Robert Altman Award 2023.
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