Regia di Kelly Reichardt vedi scheda film
Il cielo è sopra di noi. Noi, quaggiù, ne siamo infinitamente lontani. Ma lo possiamo sempre guardare, elevando l'anima, anche nella tristezza.
Scoprire il cielo. Si può anticipare il finale del film senza rovinare la sorpresa. Perché l’importante, si sa, non è l’arrivo alla meta, bensì il viaggio. Soprattutto quando è un percorso mai scontato, faticoso e lento, che scandisce il passare dei giorni con il ritmo di un impietoso stillicidio. A far da propulsore è allora il logorante attrito con una realtà che ansima, senza mai riuscire ad essere migliore. Così è per Lizzie, giovane scultrice in cerca di un successo che non sia un consenso di mercato, bensì la genuina prosecuzione della tormentata gioia provata nel creare. Le sue figure di donne, macchie di colore schizzate su un foglio, e poi contorni tagliuzzati nella creta, si contorcono con struggente dolcezza sotto le sue mani, cedendo serene alle amputazioni, alle costrizioni e alle artificiose deviazioni che una misteriosa e primordiale ebbrezza di vita imprime ai loro corpi. Vorrebbero volare, ma una forza le tiene attaccate al suolo, impegnandole in difficili esercizi di equilibrio. Danza, per loro, non è volteggiare leggeri, sottraendosi alla gravità: è, invece, camminare con la massima libertà di movimento, seguendo ogni tipo di linea ed inclinazione, anche se la materia pesa, e la testa è china sotto il macigno di un quotidiano dolore. Un piccione ferito, chiuso in una scatola, ha un’ala rotta attaccata al fianco da una benda stretta. Garrisce e, semplicemente, giace. Non è quella la sua normalità, e dunque il suo essere, in sottofondo, piange la sua stranezza dentro la noia del mondo con ineffabile grazia. Il suo verso è la colonna sonora di un’ispirazione che palpita e soffre, oppressa dal tempo che non è mai abbastanza e da una libertà che manca. Jo, collega e padrona di casa di Lizzie, non si attiva per farle arrivare in casa l’acqua calda. E la donna si trova costretta ad elemosinare in giro la possibilità di farsi una doccia. Ma intanto continua a pensare alle sue opere, alle forme nervose che descriveranno il suo prossimo sogno rassegnato a rimanere un mezzo incubo. Fino all’ultimo istante, il soffitto si mantiene basso, in questa storia. E i sorrisi sono sempre, inevitabilmente, cenni di smorfie incomplete. Anche Sean, il solitario fratello di Lizzie, presunto genio incompreso, altro non è che un discreto scarabocchio tracciato sul bordo di una civiltà inselvatichita: non a caso scava, nel suo giardino, una fossa circolare per ridare, alla terra, una bocca da cui esca la naturale voce della poesia. Da questo film si può restare delusi, perché è apparentemente poco quello che esprime raccontando. Il testo si riduce, quasi per intero, ad un bisbiglio di contemplazione ed attesa, il tessuto narrativo ricorda una rete in cui si impigliano i problemi e pure le loro soluzioni. Lo si direbbe uno degli intrecci fantasiosi ma informi usciti dal laboratorio di telaio, una delle ragnatele d’autore realizzate dall’eccentrica Jo. Ma, forse, la sua colpa è solo quella di essere un ricamo sottilissimo, il sofisticato intrico di un filo impalpabile e trasparente, che la macchina da presa non può cogliere. L’obiettivo può solo affondare il suo sguardo nel silenzio, ritraendo il volto anonimo e atipico dei fatti, nella speranza che, da qualche parte, giunga a noi il riverbero del loro flebile respiro.
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