Regia di Hirokazu Koreeda vedi scheda film
Ancora negli occhi la fiammante cromatura rossa della Volvo "vintage" di "Drive my car" che il cinema giapponese, alla riscoperta del "road movie", mette su strada un nuovo mezzo di trasporto destinato a diventare icona dell'ultimo film di Kore-eda Hirokazu. Un furgone scalcagnato dal colore verde petrolio e dalle striscie rosse sugli sportelli che esibisce sulle fiancate le insegne e i numeri di telefono della lavanderia da quattro soldi di Sang-hyeon e del suo "socio in affari" Dong-soo. Dentro l'abitacolo gli abiti appesi alle loro grucce, elementi decorativi di un set in cui i due uomini recitano la parte dei lavandai, delimitano, come tendine, lo spazio racchiuso in un luogo chiamato "casa". Il portello posteriore si apre con costanza durante i viaggi di "lavoro" per cui non resta che uno stratagemma, in attesa di tempi migliori, per chiudere e richiudere la noiosa lamiera col vizio di aprirsi. Dong-soo, dal sedile del passeggero, tira una lunga fune che attraversa la scocca dell'abitacolo ponendo, in tal modo una toppa su una situazione d'emergenza diventata ormai definitiva.
Le vite di Sang-hyeon e Dong-soo sono molto simili allo sgangherato mezzo di locomozione su cui passano infinite giornate. Sono piene di rammendi e molti altri ne vorrebbero ma i soldi non ci sono, gli affetti sono pochi e le ferite aperte troppe per essere ricucite con efficacia.
Il presente dei due amici è molto fragile, il loro futuro è quanto mai incerto e la porta delle loro anime sbatte forte e si apre continuamente lasciando trapelare tutta l'indifesa precarietà che li accomuna. Nonostante ciò, la morale dei due soci, benché discutibile, è costruita sulle fondamenta di nobili principi che non si adattano completamente al fruscio delle banconote. Si direbbe insomma che Sang-hyeon e Dong-soo accettino con benevolenza le loro dignitose esistenze, rattoppate e ammaccate dalle esperienze drammatiche del passato. Un passato che non sentono di rottamare, piuttosto di "aggiustare", quando serve, con un po' di filo, un ago, una corda.
Il destino, però, non lascia tempo per i ricami e sovente mette tutto in discussione rimodulando le necessità e modificando ogni certezza. Basta un neonato dalle sopracciglia imperfette, una giovane madre dal passato burrascoso ed un orfanello di otto anni a riempire gli spazi vuoti del furgone e quelli del cuore. Ogni traballante sicurezza si modifica chiedendo scelte inusitate che prima non sarebbero state contemplate.
Per il ritorno al Festival di Cannes il maestro Kore-eda gioca sul sicuro riproponendo l'ennesima variazione sul tema della famiglia, argomento che gli ha portato fortuna sulla Croisette con la Palma d'Oro "Un affare di famiglia", giusto per citare il più famoso e recente dei sui lavori presentato in Costa Azzurra. Rispetto ad altre su opere, tuttavia, Kore-eda si mantiene su un territorio "neutrale" geolocalizzando il racconto nella vicina Korea. Così, dopo l'esordio in lingua francese (Le verità), in un contesto molto diverso da quello consueto, il maestro si appropria anche della lingua coreana girando tra Busan, Incheon e altre località del Sud della penisola. Il risultato è più simile alle opere giapponesi, un po' per i tratti orientali dei protagonisti, un po' per la presenza di quei bambini intorno ai quali si consumano drammi e nascono teneri affetti.
Kore-eda riannoda il filo del proprio cinema attorno al bottone allentato di una camicetta e ripropone la sua idea potente e struggente di famiglia cucita insieme da legami di affinità che superano quelli sovrastimati di consanguineità. Nel mondo di Kore-eda il detective Soo-jin trascende il proprio stato di "nemico" per trasformarsi in membro "esterno" di una famiglia allargata di cui non ha inizialmente percezione. Nello stesso modo un bimbetto diventa fratello putativo di un neonato e un uomo lacerato negli affetti compie il proprio destino per salvaguardare la felicità del proprio branco braccato da un lupo famelico.
Nel mondo di Kore-eda siamo tutti destinati a ricoprire il ruolo di padri, madri e figli senza che un codice fiscale o un attestato di matrimonio servano a certificare emozioni e legami.
Il regista ci pone al cospetto di scelte drammatiche come l'omicidio o l'abbandono dei figli ma senza giudicare una realtà, quella coreana, in cui il progresso e il benessere non ha messo freno allo sfruttamento delle persone, alla schiavitù del profitto e all'ingiustizia sociale. Qua e là la narrazione sembra ferruginosa e la ricerca del bambino da parte della ricca vedova sembra suggerire una "strage degli innocenti" in divenire che può sembrare eccessiva. Alcune sequenze, a contrario, sono vitali e meravigliose come la doccia nel furgone ed i passaggi nei circoscritti spazi della ruota panoramica. "Broker", il cui titolo Internazionale è ben più interessante della solita inutile traduzione italica che allude ad una delle sequenze più inutili del film, è un telo candido, ammorbidito, apprettato e stirato con gentilezza, su cui Kore-eda Hirokazu scrive una delle sue lodi all'amore universale più belle, che si chiude con una piccola fotografia in bianco e nero. I legami tra le persone tendono a scompaginarsi ma quelli famigliari possono resistere alla separazione e rimanere più intensi che mai.
Cinema Teatro Santo Spirito - Ferrara
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