Regia di Hirokazu Koreeda vedi scheda film
C’è, nel cinema di Kore-eda, una dolcezza nativa, qualcosa che non si costruisce, c’è e basta, e dà il sorriso alle cose.La magia è farla convivere con quanto di più turpe ci sia al mondo.
Nascere sotto una buona stella non è solo un modo di dire! Così recita una pagina web che assicura ai fortunati venuti al mondo durante i minimi di attività solare, cinque anni di vita in più. Senza inoltrarci in discettazioni astronomiche, una volta visto il film non resta che pensare che al piccolo Woo-sung sia accaduto esattamente questo.
Naturalmente tutto avviene nell’ottica di Kore-eda, che stavolta se ne va in Corea del Sud a girare.
Dunque nascere sotto buone stelle non è avere beni e famiglie solide alle spalle, poco importa anche nascere geni e aspirare al Nobel, grandi artisti o super belli e aspirare alle copertine più trendy.
Si può anche nascere in giorni di pioggia maledetta, fredda e greve, in un quartiere di Busan dove meglio non passare neanche di giorno, da una prostituta che non ha voluto abortire.
La madre, giovanissimo giunco filiforme dagli occhi di cerbiatta e capelli alla vita, è una che poi, però, deposita il neonato nella baby box (una volta si chiamava ruota di Santa Caterina, ma non in Corea) e alla resa dei conti sembra non sapere neppure lei perché lo ha messo al mondo.
Per di più ha ucciso il padre del bambino, vecchio porco con moglie ricca frequentatore di bordelli. La polizia la segue, due poliziotte che nulla hanno delle dure dell’FBI o dei servizi di Unita Comportamentale, sanno il fatto loro ma non devono necessariamente terrorizzare il malvivente o spianare fucili.
Insieme a So-young, la ragazza madre in odore di omicidio colposo, hanno nel mirino i due broker dediti alla compravendita di neonati.
La baby box serve a questo e, pare, ci sia anche lo zampino del parroco nel turpe traffico.
Dunque, dov’è la buona stella di Woo-sung?
Calma, arriverà, pian piano, contro ogni ragionevole previsione.
Le storie di Kore-eda si snodano così, fanno pensare al De Andrè di Via del Campo: eventi inattesi, mondi sgangherati che, come le baracche in cui vivono, sembrano crollare da un momento all’altro e invece reggono; incontri che peggio assortiti non si può.
Eppure, per chissà quale magia, senza nessuna fata turchina all’orizzonte, i relitti restano a galla, o, come Cocodrile del grande coreano Kim ki Duk, scelgono il loro habitat e la pace sul fondo del fiume, sotto quel ponte di Seul dove i nostri quattro eroi (i due adulti, il bambino e il neonato) passano per raggiungere coppie sterili in cerca di figli.
Da una coppia di potenziali acquirenti all’altra, in giro per la provincia, fra i due broker, il piccolo, simpaticissimo saputello scappato dall’orfanotrofio e la giovanissima So-young nasce un legame che crea famiglia, che importa dei legami di sangue?
“Grazie di essere venuto al mondo” è il loro mantra, recitato nella squallida cameretta d’albergo dove riparano on the road.
Dunque il piccolo Woo-sung sarà venduto?
Chi potrebbe crederlo? I tre accampano pretese molto alte dai potenziali acquirenti, e non certo per avidità. E così la trattativa ogni volta fallisce.
Da bastardo senza famiglia Woo- sung arriverà ad essere circondato da padri e madri che di certo gli procureranno una vita felice.
C’è, nel cinema di Kore-eda, una dolcezza nativa, qualcosa che non si costruisce, c’è e basta, e dà il sorriso alle cose.
La magia è farla convivere con quanto di più turpe ci sia al mondo.
E forse anche il mistero, che l’arte di Kore-eda ci mostra ogni volta, senza però svelarlo.
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