Regia di Hirokazu Koreeda vedi scheda film
Il fine giustifica i mezzi, anche se l’approdo viene rivisto in corso d’opera, l’apparenza trae in inganno e le ombre non mancano.
Per come tira il vento, meglio non fare troppo gli schizzinosi e non lasciarsi sfuggire quel poco di buono che offre il convento. Senza dimenticare che ogni vicenda ha anelli di congiunzione visibili immediatamente, al primo colpo d’occhio, e altri che sono volutamente tenuti a debita distanza da occhi indiscreti, che troppe volte il giudizio è emesso in anticipo sui tempi, quando gli stessi non sono ancora maturi.
Per tutti, vale la pena di farsi un profondo esame di coscienza. Di non rimanere arenati nelle proprie convinzioni, di fare un respiro profondo e pensare, di imparare a capire gli altri, in modo tale da provare a comprendere prima di emanare una sentenza di condanna.
So-young (Ji-eun Lee – Moon lovers), una giovane ragazza madre, lascia il suo neonato in un centro deputato ad accogliere i bambini che, per scelta o necessità altrui, non hanno nessuno al mondo. A stretto giro di posta, Sang-hyeon (Song Kang-ho – Parasite, Memories of murder, A taxi driver) lo preleva di soppiatto per venderlo e ripagare un debito, coadiuvato dal sodale Dong-soo (Dong-won Gang - Peninsula, Secret reunion).
Nel giro di poche ore, i due sono rintracciati da So-young e insieme decidono di collaborare per trovare una sistemazione adeguata al pargolo, una coppia che possa amarlo e crescerlo nel migliore dei modi.
Mentre le loro ricerche proseguono senza sosta, Soo-jin (Bae Doona – The host, Cloud atlas) e Lee (Lee Joo-young - Maggie), due detective che seguono queste pratiche illecite, li tallonano da vicino, pronte a incastrarli mentre compiono il reato.
Il corso degli eventi porterà tutti i coinvolti a trovare una soluzione fuori programma.
Di ritorno dalla Francia (Le verità), il pluridecorato Hirokazu Koreeda fa tappa in Corea del Sud appropriandosi di un fenomeno denominato baby boxes, che si presta alla perfezione per riprendere in mano quei temi che da sempre hanno caratterizzato il cinema più elevato e convincente dell’autore giapponese.
Dunque, torna a parlare di famiglia, bypassando gli steccati della sua concezione tradizionale (Un affare di famiglia), per valorizzare e incentivare quei legami che si costituiscono e rinsaldano cammin facendo.
Questa volta, da un abbandono (Nessuno sa), intraprende una strada che combina dramma e commedia, volta ad acciuffare la speranza, sarà che i tempi odierni sono particolarmente cupi, che le norme, strangolate dalle pastoie burocratiche, non sono più sufficienti per risolvere i problemi, almeno quelli che si presentano in una forma particolarmente acuta, che il sistema non è predisposto all’ascolto, che la precarietà dei rapporti deve rimettere tutto in discussione, che i gusti sono individuali e quindi non meritano di essere normati (banalmente, vedi il bambino che preferisce l’autolavaggio alla ruota panoramica).
Scegliendo un formato on the road di approccio immediato, Le buone stelle è un distillato di emozioni, predisposto con un pronunciato indice di sensibilità e riempimenti nutrienti. Aspetti che fanno perdonare – devono farlo - un motore che non vanta performance indimenticabili, che snocciola dilemmi, scelte dolorose e motivi direttamente prelevati dalla sfera dell’etica, con significative variazioni work in progress.
Hirokazu Koreeda maneggia il materiale con un tocco lieve, con abbondanti dosi di gentilezza, tenerezza e urgenza espressa con pacatezza, redigendo una lezione – da agguantare al volo - su come si dovrebbe stare al mondo per renderlo un posto più accogliente, facendo prevalere i sentimenti sani, dedicando il pensiero prioritario al prossimo, sfuggendo da moduli reiterati, fissi e stringenti, anche a costo di non presentare una cadenza costantemente incisiva (vedi Father and son).
Un risultato da rispettare, che merita di veder intercettata la sua lunghezza d’onda, anche per le striature e la condivisione emanate dagli interpreti. Ancora una volta, Song Kang-ho sfoggia una classe cristallina, confermandosi a suo agio con qualsiasi divisa richiesta dalla contingenza, ma Dong-won Gang lo spalleggia con naturale destrezza e il controcampo femminile, con Bae Doona e Ji-eun Lee in stato di grazia, sprigiona moti dall’anima – inizialmente repressi – con contrassegni destinati a incrementare il loro peso specifico fino a diventare dominanti.
In definitiva, Le buone stelle è un film che non fa false promesse, che fa luce e prende per mano, che chiede pazienza. Stringe legami crescenti e si distacca dalle pratiche ordinarie (dove tutto è chiaro, senza increspature), così come da quanto rientra nella ratio del manicheo, con un percorso che esplode – sempre senza far rumore e nel segno della solidarietà – in un finale confortante e limpido.
Un collettore universale, tra storie che si ripetono nel silenzio generale e arcobaleni a portata di mano, conti in sospeso e soluzioni alternative, benevolenza e speculazioni, spigoli fraudolenti e anfratti confortevoli, espedienti per tirare a campare e tornanti che rinnovano il patto sociale, atteggiamenti deplorevoli e scatti di umanità, lacrime e sorrisi, asperità da limare e abbracci che capovolgono il destino.
Florido e pacificatore, un cinema probabilmente lontano dall’eccellenza ma necessario a qualsiasi longitudine.
Non ci sono commenti.
Ultimi commenti Segui questa conversazione
Commenta