Regia di John Milius vedi scheda film
John Milius prende il nemico pubblico numero uno degli anni della depressione americana e senza edulcorarlo come si è sempre, e giustamente, fatto con i banditi del West, lo carica delle contraddizioni dell’uomo moderno. Contraddizioni fisiche, come la violenza, l’impeto sessuale, la dolcezza e tenerezza di un innamorato; e contraddizioni filosofico-politiche, come la disconoscenza di un ordine legale superiore, ma il rispetto per gli avversari, anche non tutti. Un personaggio isterico che sarebbe stato bene addosso a Klaus Kinski, per intenderci, ma che con l’immenso Warren Oates ha il volto americano, banditesco, deluso e ribelle che proprio doveva avere. Al di là della forte rassomiglianza con il vero Dillinger, Warren Oates gigioneggia magistralmente nei panni scomodi di un mito della delinquenza, come se la pelle di Dillinger fosse la sua seconda pelle. L’arcano è svelato semplicemente rendendosi conto che la quasi totalità dei personaggi interpretati da Oates sono la sua seconda pelle, e tutti quanti seguono quella borderline che è poi, in ultima analisi, la cifra del vero americano, quello sano e libero, quello che si scontra con il potere federale di pochi per la causa umana di molti. Inutile dire che di questo scontro dialettico, “Dillinger” resta l’esempio più lampante, opponendo a Warren Oates proprio un uomo federale, un uomo del governo, il così-poi-chiamato G-Man, il Melvin Purvis interpretato dallo storico Ben Johnson che anni prima con lo stesso Oates aveva condiviso la compañería de “Il Mucchio Selvaggio” del vecchio Sam. Due attori di razza, di una razza stoica e cinica, sui cui volti sono scritte le tensioni dell’uomo del West, l’uomo che vive a stretto contatto con gli elementi della natura, che con essi si scontra e che con essi ci muore, sempre senza sentirsi ad essi superiore. Ecco perchè questi volti, buttati lì nella depressione americana dei ’30 assumono un valore nostalgico, di giganti al tramonto, che Milius prende in eredità da Peckinpah senza poter raggiungerlo. Ma il film è ugualmente un capolavoro. Capolavoro di azione in cui le sparatorie sembrano togliere di scena in un solo colpo tutti i discorsi, le urgenze e i temi caldi della sceneggiatura. Capolavoro di stile, quello secco e spietato che il regista rielabora in un’estetica più spiccia dei colleghi coevi, come appunto Peckinpah e il Malick di “La Rabbia Giovane”, dando così al suo film l’apparenza di un instant-movie fatto in poco tempo e malamente, invece il linguaggio addottato racchiude i segni della vita bastarda che i dissidenti devono masticare amaramente per aver scelto di essere degli atomi impazziti, dei cani randagi senza padroni. E a chiudere il cerchio ci pensano gli attori. Non solo i due titanici antagonisti, Oates e Johnson, ma anche il reparto di contorno con Jeoffrey Lewis, padre di cotanta figlia, e l’innamorabile Richard Dean Stanton che è ancora là a Fort Sumner ad aspettare che torni il Kid. La sua scena madre è uno dei momenti più toccanti dell’intera pellicola per l’odio, il coraggio, la dignità, l’ingiustizia, la fatalità e tutto il resto. Quasi una mise-en-abyme della parabola discorsiva del film stesso, dove l’odio delle istituzioni si contrappesa con il rispetto della povera gente, dove la brutalità dei regolamenti si sbroglia nell’amore per la donna amata, nel dignitoso ricordo della famiglia e nella lealtà dell’amicizia. Ma gli occhi sono tutti per il confronto finale tra Ben Johnson e Warren Oates, tra l’uomo di Hoover e il Robin Hood del Midwest, tra il pugno di ferro dello Stato e l’anima ribelle dell’individuo. La storia ci antipica già chi dovrà soccombere, tant’è che fece il giro del mondo la notizia che il più grande bandito americano aveva trovato la morte una sera fuori da un cinema, dopo aver visto, paradossalmente, il gangster-movie “Manhattan Melodrama”. É un duello che si consuma al buio, tra le luci e le ombre di un vicolo appartato, come a dirci che i due termini di questa opposizione, il bandito e lo “sceriffo”, appartengono ad un’altra America, ad un’altro tempo, e si congedano dalla modernità tra le luci e le ombre della classicità epica, quell’età dell’oro che in noi è e sarà sempre una ballata nostalgica.
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