Regia di Hayao Miyazaki vedi scheda film
Il Maestro assoluto dell’animazione giapponese torna – manco a dirlo – con l’ennesimo capolavoro. Un’opera-mondo, o meglio un’opera-universo che contiene in sé tutti i mondi miyazakiani in una summa poetica di grandissimo valore estetico e concettuale. Il ragazzo e l’airone, a dispetto di ciò che potrebbe apparire a primo acchito, è difatti film complesso, stratificato e sfaccettato, oltreché adulto come forse mai prima (persino più di Si alza il vento) e non facilmente decifrabile da dei bambini.
Ecco, Si alza il vento: questo nuovo film sembra proseguire idealmente sulla scia di quello, componendo un magmatico e impressionante testamento artistico. A partire dalla citazione di Valery: “Il vento s’alza, bisogna tentar di vivere”. E proprio questo messaggio è al cuore de Il ragazzo e l’airone. Che è, al fondo, un percorso di formazione in puro stile Miyazaki, un bildungsroman di inedita tragicità, con un inconfondibile fondo autobiografico.
La scena d’apertura è un vero colpo emotivo, che catapulta all’istante dentro le atmosfere del film, e pone le basi del dramma del protagonista. La madre è morta (come quella del regista e delle piccole di Totoro) e Mahito non riesce a darsi pace. Dovrebbe superare il dolore, eppure non riesce neanche ad esprimerlo e si chiude in se stesso, arrivando fino ad atti di autolesionismo (nella scena probabilmente più scioccante dell’intera filmografia miyazakiana). Ma elaborare il lutto è una precondizione fondamentale del crescere, soprattutto dal punto di vista emozionale.
Il mondo – e non già soltanto per via dei disagi del ragazzo – sembra sul punto di crollare, ma bisogna andare avanti pure in mancanza di un chiaro senso, un ordine. Il mondo è instabile, il futuro incerto, ma Mahito al dunque capisce che non c’è alternativa sana all’affrontarlo.
Deve provare lì, nel “vero” mondo, vivere, “tentare di vivere”, non arrendersi prima ancora di averlo fatto. Riemerge qui chiaramente la consueta fiducia del regista nelle nuove generazioni: se la Storia pare un susseguirsi di distruzioni; la Natura non si può controllare e il destino riserva sempre sorprese, bisogna comunque cercare di fare il meglio che si può, superando anche le vecchie generazioni ove esse abbiano fallito miseramente.
Mahito va incontro al suo percorso di maturazione catapultandosi in un mondo parallelo di limpida concezione miyazakiana, ma – rispetto ad altre opere – dal sottofondo più tetro, insicuro, a tratti funereo. Quasi a rappresentare la confusione di un giovane e di un intero mondo, che mostra chiari segni di disfacimento.
Gli stessi (grotteschi) parrocchetti si ricollegano a questo discorso: mossi solo dai più bassi istinti, seguono inebetiti il loro “Duch” (Duce?) che non a caso farà crollare tutto, portando alla definitiva rovina un mondo già in decomposizione. Cosicché si possa infine ripartire, possibilmente “vivendo” meglio, appunto. Perché inizia una nuova epoca, dopo la tremenda conflagrazione che ha posto fine al prima. Da Meiji, all’iper-militarismo, all’imperialismo sino alla sconfitta finale e alle bombe atomiche. Ecco emergere altri temi cardine della poetica del regista, in maniera ancor più marcata che nel Castello errante di Howl.
La perfezione è sicuramente irraggiungibile, ma questo non impedisce di progredire a livello sociale, e di rendere il mondo un posto anche solo un poco migliore, finanche coll'unico ausilio di una matita, come il Miyazaki di ieri e oggi. Certo, qualcuno potrebbe dire uno strumento limitato, i suoi risultati forse evanescenti (come del resto tutta la cultura umana, che anela l’eternità, ma si deve accontentare del tempo umano) ma, di nuovo, ciò non deve impedire di tentare. La peggior colpa è quella di non provarci nemmeno.
E se pure nel cinema la perfezione non è nell’orizzonte del possibile, Il ragazzo e l’airone si unisce alla lunga stringa di opere visivamente monumentali del regista giapponese. Qui la fluidità delle animazioni, la complessità dei quadri, il vortice di trovate visive ha un che di caleidoscopico: quasi stordente, ad una prima visione, eppure ammaliante. Si alternano scene strazianti (l’incipit, il momento nel quale Mahito mangia per la prima volta “il pane con la marmellata”), scioccanti (quella della pietra) e dal fascino portentoso (come quando il protagonista viene “assalito” dalle strisce di carta) in un vortice di creatività inesauribile.
Come accennato, il film costituisce anche una sorta di compendio di un’intera vita cinematografica: e dunque, per fare qualche esempio, le vecchiette ricordano Yubaba de La città incantata, così come i teneri “wara-wara” gli omini di fuliggine del mastro delle fornaci Kamagi; la torre quasi una versione statica del castello errante o del castello nel cielo; l’arrampicamento Il castello di Cagliostro. Il tutto senza che si avverta mai autocompiacimento, auto-indulgenza e tantomeno sterile riproposizione: anzi, si reinventa senza sosta e le perle visive si sprecano.
Sì, a 80 e passa anni Miyazaki non ha perso l’ispirazione. E per fortuna. E ci “lascia” (come al solito, si spera, per il momento) con un positivo slancio verso il futuro. Ricapitolando: tutto si trasforma, la vita e la morte si rincorrono, e nel mezzo l’esistenza di ognuno che, anche unendosi agli altri e vedendo oltre il proprio egoismo, può almeno cercare di cambiare il corso delle cose. E allora voi, come vivrete?
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