Regia di Hayao Miyazaki vedi scheda film
Nell’ultimo film di Hayao Miyazaki creare è distruggere, nascere è morire. Un binomio di vita e di morte che invade qualsiasi spazio “multiversale” del film, che ha la struttura di un Narnia dell’interiorità, o di un Alice nel Paese delle Meraviglie dantesco. La fiaba, il romanzo di formazione, il romanzo picaresco, l’avventura, sono generi mai da dare per scontati, con il maestro dello Studio Ghibli. Sono sempre strumenti smentibili e slacciabili dalle loro regole, tant’è che The Boy and the Heron davvero demolisce qualsiasi illusione di struttura narrativa, tenendola su un filo sottilissimo che si muove più con le ansie e le paure del suo protagonista che non con le regole e l’epica di un mondo che quello stesso protagonista si ritrova ad attraversare.
The Boy and the Heron è la storia di Mahito che perde la madre durante i bombardamenti di Tokyo della Seconda Guerra Mondiale e si trasferisce dalla nuova compagna del padre in campagna, mentre il padre si occupa di armamenti e ingegneria aeronautica. Mahito, offeso dalla presenza della “nuova madre” Natsuko - che si dà il caso sia anche sua zia, sorella della madre - si ritrova ad affrontare la sua personale guerra mondiale quando Natsuko scompare e un airone cenerino ficcanaso lo convince a visitare la torre nei pressi della casa, un bastione decadente a cui è proibito avvicinarsi, perché proprio lì vi sarebbe tenuta Natsuko, nonché la stessa madre, in realtà ancora viva. Mahito sa benissimo che si tratta di un inganno, ma allo stesso tempo vede Natsuko inoltrarsi nella foresta; sa benissimo che l’airone sta mentendo, ma sa anche che il suo mondo non gli piace affatto, e che vale la pena giocarsi tutto. E quindi si inoltra nella città incantata, nel tunnel-sottobosco di Totoro, nella torre errante o nel castello nel cielo, più in generale in un mondo dell’immaginazione che, da dichiarazione della sua abitante-pescatrice Kokiri, è popolato quasi interamente di fantasmi.
Non c’è nulla di escapista o di infantile, quindi, in questo mondo dell’alterità: c’è quasi solo morte, nostalgia, passato che non può tornare, e la più grande propulsione vitale (proveniente dai tenerissimi warawara, anime dei bambini del mondo ancora non nati) è oggetto di continue stragi da parte di un popolo di pellicani che soffre la fame. Non c’è Paradiso, e se c’è un Paradiso nascosto da qualche parte allora è un piccolo cosmo di solitudine.
Proprio perché è un mondo di morte, che “ammuffisce” (viene detto nel film), il mondo di The Boy and the Heron non ha necessità di seguire alcuna regola. Così non ce l’ha il film, evidentemente, che nel suo continuo gioco di specchi e di doppi è quel mondo lì e ne asseconda le non-regole. E così non ce l’ha il personaggio di Himi, di cui poco si dirà per evitare anticipazioni, ma che è un vero e proprio deus ex machina che rompe l’inesorabilità del destino di quel mondo, risolve situazioni, e poi imprevedibilmente le complica quando se ne capisce la reale natura originaria. La tana del bianconiglio qui è quindi un mondo di artifici, di pupazzi ambulanti, un meccanismo cinico che bene rappresenta la disillusione creativa di Miyazaki, la sua depressione senile, il suo avviarsi al buio.
The Boy and the Heron sta alla carriera di Miyazaki come Il gusto del sakè stava alla carriera di Ozu, un requiem di opprimente tristezza in cui l’accettazione assomiglia alla rassegnazione, e la fantasia a un mondo da cui fuggire e da distruggere.
Non ci sono commenti.
Ultimi commenti Segui questa conversazione
Commenta