Regia di Chad Stahelski vedi scheda film
Iniziata nel 2014 come sogno cinematografico di due stuntman professionisti reinventatisi registi, la saga cinematografica di John Wick ha vissuto una decompressione narrativa già a partire dal secondo capitolo e trascorsi ormai quattro anni da Parabellum, terzo capitolo della saga con protagonista Keanu Reeves, ritorna con l’ultimo (e definitivo?) capitolo diretto ancora una volta da Chad Stahelski, storico stuntman di Reeves in Matrix e creatore della saga insieme al collega David Leitch, (regista di Atomica Bionda e Bullet Train), non più umile progetto cinematografico dalle lodevoli intenzioni ma ormai garanzia di successo tale da aver prodotto, nel decennio successivo, una miriade di imitazione (la più derivativa delle quali probabilmente e la serie Gangs of London di Gareth Evans) e allargando ulteriormente il proprio franchise con nuove produzioni come il prossimo Ballerina con Ana De Armas e la serie TV The Continental, sempre direttamente collegati all’universo del fascinoso e infallibile Baba Yaga.
John Wick 4 è probabilmente il più estremo di quattro film che, gradualmente, hanno abbandonato qualsiasi idea di plausibilità, che diventava sempre più vaga maggiormente ci si addentrava sempre più in profondità in un (inventato) sottobosco criminale tanto affascinante quanto dettagliato, per approdare a un cinema (quasi) concettuale nel quale si avverte però una certa tendenza all’ipertrofia cinetica e a una dilatazione narrativa alquanto esasperata che si accentua soprattutto dall’addio di Derek Kolstad alla sceneggiatura, dopo i primi due capitoli realizzata in solitaria più sobria e contenuta (realistica?) rispetto a una seconda metà del franchise, ad opera invece di Shay Hatten & Michael Finch, che punta invece a un’ulteriore estensione dell’anima più combattiva e divertita del franchise, meno pretestuosa e più fumettistica (dopotutto il concept generale di John Wick deriva direttamente da Wanted, non il film di Timur Bekmambetov ma il fumetto di Mark Millar & J. G. Jones per la Image Comics) e ampliando notevolmente il parterre di personaggi e situazioni che raggiunge il culmine proprio in questo ultimo capitolo della durata di quasi tre ore quasi totalmente occupati da continui e adrenalinici combattimenti.
Non una grossa novità visto che anche i film precedenti presentavano la stessa struttura (ma con una durata inferiore) e a questo proposito è bene ricordare che il regista è stato per lungo tempo uno stuntman e questo è fondamentalmente importante nella misura in cui l’intera saga di John Wick (e non ultimo anche questo quarto capitolo) esiste anche e soprattutto per magnificarne tale ruolo, cuore pulsante del cinema d’azione (e non solo) ma spesso relegato nell’anonimato e che Stahelski, una volta passato dietro la macchina da presa, intende promuovere a inappellabile centro narrativo invertendo quel dogma dato troppo spesso per scontato che le sparatorie e i combattimenti sono semplici orpelli funzionali allo sviluppo narrativo.
In John Wick invece è esattamente il contrario.
Questo consente a Stahelski di esplorare stili di combattimento molto diversi tra loro omaggiandoli in film che con coerenza uniscono kung fu movie e wuxiapian, arti marziali cinesi e giapponesi con shuriken e nunchaku dell’immaginario ninjatsu insieme a parti in stile SWAT con pistole, fucili, mitra ed esplosivi, armi automatiche e vecchie revolver western, lotta libera e rissa da strada con inseguimenti a cavallo, in auto e moto e cani addestrati al combattimento.
E se nel primo film si tentava di preservare ancora un certo retaggio noir con il cinema action più moderno e man mano che si proseguiva con i capitoli si svelava sempre più concretamente il bisogno stahelskiano di ricostruire l’action come unico linguaggio necessario, con l’ultimo capitolo si raggiunge l’exploit definitivo come anche la fine della sospensione dell’incredulità.
Perché né John Wick né i vari personaggi che gli girano attorno possano essere definiti come “umani” o può dare per verosimile come possa sopravvivere sempre e comunque a qualsiasi scontro vada incontro (indipendentemente dall’improbabile vestito antiproiettile
che indossano praticamente tutti) come si può credere all’infallibilità del killer non vedente Caine (un magistrale Donnie Yen) o alla plausibilità di un mondo artefatto popolato da assassini che distruggono il centro di Parigi nel disinteresse generale o senza che accorra nemmeno l’ombra di un poliziotto.
Invece in John Wick, che adotta tutta una serie di stilemi videoludici tipici anche del “first-person shooter”, tutto questo è verosimile ed è anche accettabile proprio perché connesso a una realtà parallela, alternativa e/o artificiale che la presenza poi di Laurence Fishburne, mitico Morpheus nei film de i Wachowski, rende le pellicole di Stahelski quasi come una specie di Matrix apocrifo, dove le leggi della fisica/logica non contano e la volontà può trasfigurare/modificare la realtà stessa.
O qualcuno pensa davvero che la scelta di ingaggiare Fishburne sia soltanto per un favore a Reeves o come piccolo omaggio proprio a Matrix?
Che questo poi possa piacere o no è soltanto una questione di gusti ma se, semplicemente, non lo accettiamo allora vuol dire che non abbiamo capito (davvero) John Wick.
Un John Wick che rivela le proprie radici (cinematografiche) anche omaggiando in maniera diretta I Guerrieri della Notte (1979) di Walter Hill con l’annunciatrice radio (“Good news, Boppers”) nel lunghissimo prefinale e, ancora, gli spaghetti western di Segio Leone proprio nel finale, con tanto di duello e colonna sonora “alla” Ennio Morricone.
VOTO: 7
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