Regia di Chad Stahelski vedi scheda film
Sequel, (molta) croce & (poca) delizia. Di rado, le idee originali di successo riescono a ripetersi/rinnovarsi nel tempo, ancora meno a dire qualcosa di più, a raggiungere nuovi e più luccicanti lidi senza smarrirsi nel classico bicchier d’acqua.
Le eccezioni alla regola sono sempre più rare, quantunque le formule per arrivare a conquistare questo risultato esistono, non sono affatto irraggiungibili, a ben vedere sarebbero – numericamente - anche numerose.
A questa sparuta shortlist appartengono di diritto tutte le (dis)avventure di John Wick. Partito in sordina con il primo capitolo, realizzato senza claim promettenti (diciamocela tutta, lo stesso Keanu Reeves proveniva da un flop dietro l’altro) e tra svariate complicazioni produttive, ha conquistato il pubblico, allargando a ogni appuntamento il suo richiamo, alla luce di prestazioni in netto crescendo.
Con scelte precise, direttive su cui puntare con competenze maturate nel corso degli anni e una spiccata sicurezza, propria solo di chi è consapevole delle proprie capacità, di chi possiede un know how corroborato dai fatti e che quindi è in grado di mettere in pratica una dichiarazione d’intenti che non lascia nulla al caso ne tantomeno all’immaginazione.
Scampato a morte certa, John Wick (Keanu Reeves – Matrix, Speed) può ormai contare solo sul Re di Bowery (Laurence Fishburne – Matrix, Last flag flying), mentre la Gran Tavola dà carta bianca al marchese Vincent De Gramont (Bill Skarsgard – It, Barbarian) che, come prima cosa, punisce Winston (Ian McShane – Hellboy, Pirati dei Caraibi – Oltre i confini del mare) per i suoi fallimenti rasando al suolo il Continental.
Per eliminare una volta per tutte John, il marchese assolda un vero e proprio esercito, tra cui l’infallibile Caine (Donnie Yen – Seven swords, Ip man), dando il via a una caccia all’uomo in giro per il mondo, partendo da Osaka, dove i suoi uomini devono vedersela con Shimazu Koji (Hiroyuki Sanada – Bullet train, Life – Non oltrepassare il limite).
A scompaginare le carte in tavola, ci pensa Mr. Nobody (Shamier Anderson – Estraneo a bordo, Bruised – Lottare per vivere), ma niente e nessuno è in grado di fermare la furia di John.
Tra un numero imprecisato di peripezie, lo scontro diretto con il marchese, nonostante tutte le scorrettezze da lui escogitate per evitare il peggio, sembra destinato a materializzarsi.
Arrivato al quarto capitolo con un biglietto da visita di tutto rispetto, da fenomeno oramai divenuto di massa e in costante crescendo, Chad Stahelski può applicare la sua linea editoriale/disciplinare senza doversi confrontare con alcun tipo di imposizione esterna.
Il regista statunitense marchia a fuoco il territorio, compie scelte di campo da dentro o fuori che non prevedono prigionieri (non vuole in alcun modo piacere indiscriminatamente a tutti) ed eleva - a suon di virtuosismi - all’ennesima potenza i concetti espressi in precedenza, dilaga con un minutaggio eccedente, sale in cattedra e scatena l’inferno, con una serie di macrosequenze che lasciano senza fiato.
Quindi, riduce al minimo indispensabile i raccordi narrativi e allestisce un pacchetto di stage in location suggestive e sparpagliate nel globo – da Osaka a New York, da Berlino a Parigi – che presidia e occupa con un enorme senso geometrico dello spazio, coreografie mozzafiato che garantiscono un notevole rendimento a soluzioni aerodinamiche che spaziano/orbitano tra il picchiaduro e lo sparatutto, generando un body count impressionante, tale da far impallidire qualsiasi competitor (ricordo ancora, e con piacere, i titoloni quando il titolo passò nelle mani di Die hard - 58 minuti per morire).
In pratica, dispone di una forza motrice incontenibile, che manda in brodo di giuggiole gli amanti del cinema d’azione, punta forte verso un’ulteriore accrescimento della qualità/performance, alterna frangenti da vivere in apnea a fasi di decantazione, espone citazioni altisonanti e diversificate (ad esempio, vedi I guerrieri della notte), richiama fonti influenti (tra le altre, il Wuxiapian), nella sua resa dei conti si rifà al western (genere di cui si vedono tracce dappertutto), è talmente esagitato e vertiginoso da potersi mettere in competizione con Tom Cruise e le sue missioni impossibili.
Infine, lo sfavillante packaging è sigillato dalla fotografia nuovamente affidata - al danese Dan Laustsen (La forma dell’acqua, Crimson Peak), mentre gli inserimenti del leggendario Donnie Yen e di Bill Skarsgard, che definisce un antagonista insidioso, supponente e collerico, garantiscono appoggi sicuri per assicurare manforte a Keanu Reeves, che ormai è un tutt’uno con il suo personaggio, un leader indiscusso.
In poche parole, John Wick 4 rispetta e accresce il mandato ricevuto dai suoi predecessori, rincara la dose e chiude – forse, un quinto capitolo non è escluso al momento - il cerchio di un universo comunque sia già pronto a espandersi in altre direzioni, tra spin-off (Ballerina con Ana de Armas) e serialità (The Continental), un segno supplementare di una semina profittevole.
Un action definitivo (è davvero possibile andare ancora oltre?), di poche parole e tante mazzate, con una messa in scena studiata nei minimi dettagli, che fa la voce grossa, senza esclusione di colpi, un’esecuzione al fulmicotone e stunt da urlo.
Tra colpi affondati senza pietà e contatori impazziti, paletti innestati con fermezza e fenomenali colpi di reni, un procedimento inarrestabile e dispacci facinorosi, un discreto tasso di epicità e un armamentario fuori discussione, una clessidra collaudata e sponde sicure, fendenti furiosi e convenzioni confermate, punti fermi e upgrade, capitomboli infiniti e una forza d’urto che non conosce ostacoli invalicabili.
Intensivo e granitico, tarantolato e galvanizzante.
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