Regia di Roman Polanski vedi scheda film
Tra bachi informatici e paure millenarie gli ospiti di un lussuoso hotel ed il personale di servizio, coadiuvati dal meticoloso direttore, si apprestano a trascorrere la notte più pericolosa della loro vita. Per qualcuno sarà davvero l’ultima.
Roman Polanski torna alla regia a quattro anni da “J'accuse” con un film diametralmente opposto al precedente. Tant’era sobrio, elegante e moralmente elevato il film dedicato a Dreyfus tant’è eccessivo e smodato “The Palace”. Il film, un inferno dantesco scritto con il maestro Jerzy Skolimowski ed Ewa Piaskowska, prende spunto dai trascorsi del regista stesso che passò l’ultima notte del millennio presso il Palace Hotel di Gstaad. Nello stesso hotel di allora, trasformato in set cinematografico, Polanski ambienta quella che definirei una divertita (ma solo a tratti esilarante) rappresentazione dell’alta società e dei suoi innumerevoli vizi. Il tono del racconto è volutamente grottesco e la caratterizzazione dei personaggi spinta verso i limiti dell’assurdo. Credo che Polanski si sia divertito e che si siano divertiti anche gli attori. Sicuramente la maggior parte di loro. Tra questi Sidne Rome che fu diretta dal regista nel lontano 1972 in “Che?”.
Sidne Rome, il volto deturpato da un incidente e dalla successiva chirurgia plastica, è una vecchia carampana che non ha bisogno di fingere. Alla guida di un nugolo di coetanee assilla il povero dottor Lima, retrocesso per l’occasione a veterinario, affinché conceda la grazia di un nuovo appuntamento e successivo ritocchino. Se il ruolo della vanesia Mrs Robinson sembra calzare a pennello sul viso dell’attrice italiana altrettanto si può dire del personaggio cucito addosso al pene, pardon, al naso di Luca Barbareschi, ex pornodivo, che sembra ricalcare la tormentata e bollente vita privata dell’attore. Barbareschi si mette in gioco con una terribile parrucca e l’aria malinconica del veterano del sesso. Anche il mitico John Cleese recita la parte comica di sé stesso. Nei panni di un vecchio bambino, sposato ad una formosa ventiduenne, ingoia pasticche blu e compra diamanti e cuccioli di pinguino. Il ghigno che l’ottantatreenne Monty Python stampa sulla faccia del ricchissimo Arthur William Dallas III è scolpito sulla pelle come il lavoro del bisturi inciso a peritura memoria nelle facce plasticose delle groupies del dottor Lima, veterane che lo stesso chirurgo non riesce più a riconoscere, come suggerisce una voce maligna, perché le ha rifatte tutte uguali.
La giovane Bronwyn James, invece, ha l’ardire e la spregiudicatezza di svelare le proprie abbondanti grazie nella sconcertante e divertente scena di sesso con il marito mentre l’ancora affascinate Fanny Ardant recita i capricci della diva del cinema nei modi ampollosi della “marchesa”. Ma spetta, senza dubbio, a Mickey Rourke il premio all’autoironia in questa carrellata di eccentrici, bizzosi e pazzi ricchi e nuovi ricchi che, con i loro modi, infestano i tranquilli ed innevati versanti delle alpi svizzere. Rourke è Bill Crush, parassita squattrinato, toupet trumpiano, labbra esangui, colorito giallognolo sulla cui autenticità malignano le pettegole di turno. Una vita privata che si intuisce tumultuosa e un caratteraccio aggressivo e indisponente. Insomma “Nove settimane e mezzo” in persona. La penetrazione degli interpreti nei rispettivi personaggi (e viceversa) è dunque curata nel dettaglio. A contrario, dei personaggi si intuisce quel poco che traspare dal loro comportamento. Direi che la sceneggiatura è più concentrata sul qui e ora piuttosto che su altri orizzonti temporali che amplifichino la portata dell’introspezione psicologica.
“The Palace” ha il difetto di assomigliare troppo a quel “Triangle of Sadness” che Cannes, quella stessa che ha rifiutato Polanski nella sua ultima e recente edizione, incoronò miglior film e Palma d’Oro un paio di stagioni orsono. Un difetto ascrivibile all’uscita successiva rispetto al film di Östlund e che, di fatto, lo rende emule del primo. Rimane comunque meno innovativo e forse meno ambizioso del film svedese. Rispetto al film del regista scandinavo “The Palace” ha il pregio di essere più corto, di scivolare via con maggior scorrevolezza, di evitare forzati cambi di scenario mantenendo intatta l’unità di tempo e di spazio del teatro. In fondo è il "Palace Hotel" il vero protagonista della commedia polanskiana. Tra le sue mura si consumano i volgari eccessi di faccendieri russi e gli improvvisi uzzoli di vecchi privilegiati. Tra cani che defecano solo sull’erba fresca, pinguini disponibili a copulare, fiumi di champagne e secchi di caviale il regista polacco racconta con pungente ironia l’ascesa al trono di Russia dello zar Putin, l’unico bug del millennio capace di causare, a distanza di oltre vent’anni, problemi copiosi all’umanità sopravvissuta alla morte del millennio. Mentre rinchiude un mafioso ambasciatore russo nel caveau dell’Hotel il regista preconizza la politica di Putin eletto nuovo presidente la notte del 31 dicembre 1999 con le dimissioni di Eltsin. Una data che, almeno in Russia, sembra rimasta fissa nel calendario. Ma forse quell’uomo all’apparenza orrido chiuso a chiave nella cassaforte è lo stesso Polanski, ingabbiato in un bunker (la Svizzera) e impossibilitato ad uscirne per ovvi motivi. E forse questo film è ancora una volta lo strumento di evasione di un uomo rinchiuso.
Concludendo trovo “The Palace” un buon film. Né un capolavoro né un cinepanettone come certa stampa l’ha ingiustamente liquidato.
Cinema Odeon - Vicenza
Non ci sono commenti.
Ultimi commenti Segui questa conversazione
Commenta