Regia di Roman Polanski vedi scheda film
Uno splendido, riuscito, film di critica sociale, sulle nostre classi dirigenti, quelle del capitalismo della globalizzazione, che proprio all’epoca dei fatti (1999) erano all’apice della illusione, e/o consapevolezza, di guidare il mondo.
Il cattivo gusto. La volgarità dell’animo. Il culto dell’apparenza. La falsità irrinunciabile. Il pettegolezzo. L’ipocrisia. L’entusiasmo finto e forzato, anche per illudersi di eludere la depressione, che arriva certa, senza un minimo di valori morali decenti, com'è il caso di questi ricchi (ma non certo tutti i ricchi sono così).
Il grande ritmo aiuta la visione del film, che poi non è lungo, così come l’innegabile maestria tecnica con cui è prodotto, in ogni singolo dettaglio. Dettagli che non sono mai irrilevanti, trattandosi di un “jetset” dove le richieste sono altissime, proprio anche nei dettagli, come del resto mostrano gli esigenti protagonisti.
La cortesia solo di facciata, mirabilmente esemplificata da chi la deve ostentare sempre, magari per quarant’anni di fila sul luogo di lavoro, come gli albergatori.
L’entusiasmo, l’ansia in generale, quindi l’eccitazione per il nulla. Una superficialità che si può sposare solo con l’indifferenza verso ciò che è davvero importante. La tragedia per le feci del cane è in tal senso esemplare. Ma lo è pure la sovraestimazione della chirurgia plastica, che letteralmente, materialmente e visibilmente affligge tantissimi di questi ricchissimi avventori.
Uno dei pregi della pellicola consiste in questo: nel mostrare che fra ricchi e poveri, ai tempi del capitalismo, non c’è differenza di qualità. Non cambia la grana. La finezza umana è la stessa, perché quasi non c’è: esiste pressoché solo la grossolanità, la meschinità. La miseria umana, culturale e morale.
La necessità del lusso, qualcosa che per eccellenza non è necessario, viene mostrato per ciò che è: un aspetto di psicopatia sullo sfondo, qualcosa che porta a scambiare ciò che è importante con ciò che non importante. E che porta a scambiare ciò che non è importante con ciò che è importante. Senza commenti, in modo realista, questo vizio capitale viene a mostrarsi.
Stupendo Micky Rourke. Ma tutti gli attori in generale eccellono, come Oliver Masucci nella difficilissima parte di un direttore di hotel extralusso che, invece di essere un luogo di relax per persone invidiabili, assomiglia molto più a un manicomio.
Un gran film che mi ha fatto rivivere il gusto dell’anno scorso di Triangle of sadness: la deformazione grottesca non inficia la correttezza di una certa lettura psicologica e sociologica. Che si siano arrivati finalmente i tempi di una necessaria critica sociale integrale, per come si deve? Difficile crederlo, data l’ignoranza sviluppata dalle ricchissime elite dei pochissimi che dominano il mondo.
Eppure, sulla scorta di questi film, qualche speranza c’è. Di un nuovo, corretto genere di film di denuncia sociale. Dove chi comanda mostra difetti e sofferenza e colpe spaventose. E poi non ci si può stupire di una società, ormai mondiale, malata, nel complesso.
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