Regia di Ermanno Olmi vedi scheda film
Come trovasti, o scelerata e brutta
invenzion, mai loco in uman core?
Per te la militar gloria è distrutta,
per te il mestier de l'arme è senza onore;
per te è il valore e la virtù ridutta,
che spesso par del buono il rio migliore:
non più la gagliardia, non più l'ardire
per te può in campo al paragon venire.
Così Ludovico Ariosto, nell'Orlando Furioso (Canto XI, 26) stigmatizza l'uso delle armi da fuoco, facendo esplicito riferimento a come esse abbiano snaturato, rovinandolo, «il mestier de l'arme», il mestiere delle armi, appunto. La prima versione dell'Orlando Furioso risale al 1516, la seconda al 1521, la terza e definitiva è del 1532. Frattanto, il 30 novembre del 1526, era morto, ventottenne come una rockstar dei tempi moderni, Giovanni de' Medici, condottiero passato alla storia come Giovanni dalle Bande Nere. Il Canto XI dell'Orlando Furioso è proprio uno di quelli inseriti dall'Ariosto nella sede di quest'ultima revisione e non è da escludere che le ottave che compongono questo canto siano state ispirate, almeno in parte, dalla prematura dipartita del giovane soldato, in morte del quale aveva composto un'ecloga d'occasione. Infatti l'Ariosto, che nei suoi componimenti seguiva spesso, in prospettiva ferrarese, gli eventi più significativi della storia contemporanea, nel Furioso non lesina riferimenti all'arma che colpì Giovanni (il falconetto) e ai tanti «signori e cavallieri», uccisi da un'arma degna di finire per sempre in fondo al mare, e scrive:
e qual bombarda e qual nomina scoppio,
qual semplice cannon, qual cannon doppio;
qual sagra, qual falcon, qual colubrina
sento nomar, come al suo autor più agrada;
che 'l ferro spezza, e i marmi apre e ruina,
e ovunque passa si fa dar la strada.
Rendi, miser soldato, alla fucina
per tutte l'arme c'hai, fin alla spada;
e in spalla un scoppio o un arcobugio prendi;
che senza, io so, non toccherai stipendi.
[...]
Per te son giti ed anderan sotterra
tanti signori e cavallieri tanti,
prima che sia finita questa guerra,
che 'l mondo, ma più Italia ha messo in pianti;
che s'io v'ho detto, il detto mio non erra,
che ben fu il più crudele e il più di quanti
mai furo al mondo ingegni empi e maligni,
ch'imaginò sì abominosi ordigni. (Canto XI, 24-25, 27)
Ermanno Olmi, che a mio parere ci dà qui il suo ultimo capolavoro, fa un discorso di straordinaria finezza, per raccontare gli ultimi giorni di una vittima della politica, di un uomo che pur non essendo un innocente fu probabilmente un puro, fedele quanto meno al mestiere che si era scelto, inseguendo e poi opponendosi alle soverchianti truppe mercenarie dei lanzichenecchi del Frundsberg, quando anche il comandante supremo dell'esercito pontificio, Francesco Maria I della Rovere, cincischiava ed evitava di affrontare le truppe inviate dall'Imperatore Carlo V. Allo stesso tempo, il comportamento cinico ed opportunistico di Federico Gonzaga, signore di Mantova, e di Alfonso I d'Este, duca di Ferrara, isolava il condottiero, il cui figlio Cosimo sarebbe poi diventato il primo granduca di Toscana.
Olmi narra questa storia con filologico realismo storico, che pure riesce a trasfigurare in poesia, con parche parole e scenari che sembrano ispirarsi a Brueghel per gli esterni e alla pittura di corte di pittori quali il Dossi e il Bronzino per gli interni.
Il messaggio umanitario, ma anche cristiano (il giovane condottiero accetta l'idea di soffrire e di morire con attitudine al sacrificio degna di un protomartire), di Olmi traspare anche da quest'opera limpida che costituisce un appello contro la guerra e le sue armi, ma anche contro le arti machiavelliche della politica e di una diplomazia votata al vuoto esercizio del potere.
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