Regia di Alexander Payne vedi scheda film
Come sempre i nostri estrosi titolisti sperano di attrarre un maggior numero di spettatori aggiungendo un’appendice fastidiosamente didascalica all’originale titolo The Holdovers, più che sufficiente a introdurre il tema principale del film: quelli che sono costretti.
Nell’America delle ingiustizie e della guerra in Vietnam (siamo negli anni ’70), i licei più prestigiosi sono esclusivo appannaggio dei giovani più ricchi, quelli che per nascita e non per meriti hanno il diritto non di studiare, ma di ottenere i diplomi bostoniani che apriranno loro le carriere più ambite. Ovviamente non importa se non hanno mai aperto un libro e perciò sono ignorantissimi; neppure importa se non si pongono mai domande sulla vita e sul futuro: i grandi problemi dell’esistere, su cui si erano arrovellati scrittori e filosofi nei millenni, semplicemente non li riguardano.
Nella prestigiosa Barton Academy, insegna il professore Paul Hunham (bravissimo Paul Giamatti), studioso innnamorato del mondo classico e deciso a non piegarsi ai privilegi dei suoi studenti sfaticati. Cerca, infatti, vanamente di ottenerne l’attenzione durante le sue lezioni, ma a nulla servono, purtroppo i richiami, le punizioni, i compiti in classe all’improvviso, i brutti voti e ogni immaginabile “tortura”, poiché il preside – a cui arrivano i cospicui assegni delle famiglie – è pronto a cancellarne ogni traccia, pur di mantenere alla scuola il prestigio che avrebbe assicurato anche in futuro iscrizioni “altolocate”.
La storia
È in arrivo il Natale del 1970; gli studenti si stavano preparando a rientrare in casa, liberandosi, infine, della prigionia della prestigiosa Barton Academy.
Lì sarebbero rimasti cinque studenti – ragazzi in attesa di ricongiungersi alle rispettive famiglie – con l’odiatissimo professor Hunham, con la cuoca afroamericana Mary (Da’Vine Joy Randolph) e con il personale della scuola, ma quando quattro di loro li avevano abbandonati, raccolti da un elicottero e trasportati a sciare, era rimasto Angus Tully(Dominic Sessa).
La storia del film entra nel vivo: si sarebbero trovati di fronte il docente solitario – evitato da tutti per la severità, che pare sottolineata ironicamente dalla divergenza strabica degli occhi, nonché dal cattivo odore del corpo (effetto di una malattia metabolica) – e l’alunno più odioso e aggressivo…
Può essere una famiglia quella di Mary, Paul, Tully, una madre, un padre e un figlio?
In realtà i tre rimasti sono fondamentalmente tre persone sole, che il regista chiama ora a fare i conti con se stesse, mettendo in luce alcuni aspetti oscuri di un passato che ciascuno di loro non può o non vuole rimuovere.
Mary è una donna straziata da un dolore enorme: era tornato dal Vietnam da eroe, con gli onori militari e le corone sopra la bara, suo figlio, che aveva fatto studiare alla Barton Academy, in cambio del proprio lavoro di cuoca. Non aveva potuto iscriverlo all’Università, impedita dalla povertà della sua condizione e ora, chiamata a condividere i festeggiamenti natalizi, un po’ si apre con i suoi solitari e inattesi compagni.
Lo stesso destino tragico attende Tully, infelice per il divorzio dei genitori e odiato da un patrigno che non lo vuole in casa.
Il giovane, più volte bocciato, rischia di morire in Vietnam, ora che una nuova legge obbliga i ripetenti al servizio di leva.
Una visita al padre naturale – accompagnato dal “severissimo” Paul – e la scoperta del suo precoce Alzheimer lo avevano costretto a confrontarsi con la realtà del dolore e della malattia e a comprendere l’insensatezza della vita, ciò che un amante del mondo classico, come il suo professore impossibile, aveva capito da molto tempo, ma che non aveva saputo trasmettere agli studenti, per l’incapacità di stabilire con loro un rapporto empatico…
Un bel film, nel quale a tratti ho ritrovato la poesia malinconica del migliore Alexander Payne: A proposito di Smith, Sideways, Paradiso amaro, Nebraska, diversi fra loro ma connotati tutti dalla vena ironicamente amara del racconto e dalla fiducia nell’amicizia e nell’apertura all’altro per uscire dalla solitudine insopportabile a cui il destino ci costringe.
Perché, infatti, i costretti siamo tutti noi.
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grazie lilli....appena posso lo vedro' con piacere...
Mi è proprio sembrato un gran bel film, nel quale la durezza del tema è sapientemente mitigata dalla garbata malinconia dei personaggi più importanti, quelli che comprendono, anche se giovani o giovanissimi, il non senso del vivere; la solitudine amara di chi per esperienza personale ha compreso che ciascuno è prima o poi costretto a confrontarsi con destino di ogni essere vivente: la morte.
Il denaro, il potere, il privilegio per diritto di casta o di classe, ovvero tutto quello che sembra importante, perde ogni valore...
L'amicizia e l'empatia, allora, ci aiutano e pur senza illuderci, un po' ci confortano
In effetti è un titolo un po' difficile da "rendere" in italiano: motivo in più per lasciarlo così, eh-eh... (E "lezioni di vita" è cmq. un suffisso banalotto).
"I costretti" non è male; quelli che restano/rimangono; i... depositati, quelli fermi in deposito...
(Segnalo refuso alla fine: Tom Payne.)
Ahimè, non capisco come sia successo, ma vado a modificarlo subito. Grazie milla, Matteo e buona domenica.
Il mondo di Alexander Payne riassunto in pochissime righe. Per chi lo volesse conoscere basterebbe questa lettura.
:-)
Grazie Roberto! Cercando di essere il più possibile sintetica e precisa, mi costringo a un pesante lavoro di rifacimenti e di correzioni. Mi fanno piacere, perciò, i riconoscimenti di tutti voi, che danno un senso alla mia scrittura. Per l'occasione ho rivisto Sideways e A Proposito di Smith, dei quali, in futuro, conto di parlare, magari facendoli diventare argomento di un post.
Buon fine settimana a te e ai tuoi cari.
;-)
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