Regia di Alexander Payne vedi scheda film
Solo conoscendo il passato possiamo – almeno provare a - comprendere il presente. Ciò vale sia per la Storia, con corsi e ricorsi che definiscono delle linee guida riprese/perorate più volte a distanza di secoli e di latitudini, sia per i singoli individui, che troppe volte finiscono per essere catalogati basandosi solamente su un pugno di elementi, sommari e risicati, come se fossimo delle macchine perfette contraddistinte da una manciata di dati di targa, rigidi e inoppugnabili.
Giudizi approssimativi che solo il tempo - qualora venga concesso in dono - può cambiare/manomettere, sempre se si creano le condizioni adeguate, se si stabilisce quella lunghezza d’onda – rara e in quanto tale preziosa - che ricuce le distanze e che consente di aprirsi, di mettere in mostra valori nascosti, fragilità che non si vogliono condividere con il primo che passa per strada.
Questa circostanza è la chiave di volta di The holdovers, un film che si aggira al di fuori dei radar odierni, che non vuole ottenere tutto e subito, che ha parecchio da comunicare ma che non ha la benché minima intenzione di alzare la voce, di piegarsi alla retorica e alle smancerie, preferendo stabilire una connessione speciale e coltivata mediante un diagramma fatto di reciprocità, del tutto privo di quelle tipiche scene madri che pretendono di realizzare l’impossibile, di materializzare ciò che non esiste/sussiste quando si parla di chi risiede – inascoltato e vilipeso - ai margini.
New England, 1970. Alla Barton Academy sono tutti pronti per tornare dalle relative famiglie per trascorrere le festività natalizie. Per via di una scelta intransigente, a Paul Hunham (Paul Giamatti – American splendor, Billions), un insegnante severo, inflessibile e disprezzato da tutti, spetta l’ingrato compito di gestire quei pochi studenti che non hanno potuto far ritorno a casa. Nel giro di pochi giorni, nella struttura rimarrà solo con Mary Lamb (Da’Vine Joy Randolph – Dolemite is my name, The lost city), la responsabile della cucina, e Angus Tully (Dominic Sessa), uno studente particolarmente riottoso.
Inaspettatamente, questa condanna all’isolamento sarà l’occasione per farsi forza a vicenda, per vivere una piccola avventura e per imprimere una svolta al proprio futuro.
Dopo una palese battuta d’arresto, avvenuta con l’ambizioso, controverso e sostanzialmente rimosso Downsizing, Alexander Payne ha ricaricato le pile e si è rimesso in moto, tornando a un racconto più soffuso e intimo (Nebraska), amaro e confidenziale, nel quale un po’ tutto assume una singolare, distintiva e attinente specificità, un ripiano da occupare e da difendere a denti stretti.
Partendo da uno sfondo natalizio, che di suo già lo rende appetibile come potenziale nuovo classico del genere, per quanto non sia in alcun modo uniformato ai canoni che vanno per la maggiore, inscena dinamiche prettamente cinematografiche che lo avvicinano – di volta in volta – a film assai diversi tra loro (da L’attimo fuggente a The breakfast club), sintonizzandosi in prevalenza su una contestualizzazione New Hollywood degli anni settanta, per poi comunque affermarsi in proprio ed emettere una luce autonoma.
Dunque, procede per eliminazione (le vacanze natalizie lasciano per strada solo gli ultimi della classe) e instaura un viatico a tre voci per andare contro a chi, dall’alto di una posizione dominante/prevaricatoria, mette categoricamente tutto in riga. Da un fuori programma, affiorano gradualmente i carichi pendenti di tre brutti anatroccoli con i quali nessuno vuole avere a che fare, tra perdite che generano un vuoto incolmabile (il richiamo diretto è al Vietnam), decisioni calate dall’alto che chiudono di sana pianta un legame fondamentale e ingiustizie strettamente correlate alla classe sociale di appartenenza (un ricco non perde mai, lo svantaggiato non può fare altro che adeguarsi e subire in silenzio se vuole avere una chance di non scomparire).
Torti sottaciuti e troppo grossi per essere riassorbiti, che tratteggiano con disarmante accortezza e vicinanza tre figure che, a loro volta, tendono progressivamente ad avvicinarsi, comunque sia evitando di scivolare sulle varie bucce di banana dislocate sul terreno, talvolta anche in bella vista (le ipotetiche storie d’amore non hanno alcuna speranza di materializzarsi). Così facendo, The holdovers oltrepassa il Rubicone dell’ordinario, con un working in progress che sarà – in buona sostanza lo è - anche prevedibile ma che offre, tra quanto figura in primo piano e ciò che è da scovare/prelevare tra le righe, un distillato di emozioni purissime, che germogliano limitando al minimo le forzature.
Un risultato notevole, che in qualche modo riappacifica con un mondo incomprensibilmente ottuso e iniquo, conseguito in virtù anche di tre interpretazioni che dialogano brillantemente e apertamente tra loro, anche tramite fisicità altamente contraddistinte e differenziate (tra un occhio sbilenco, spigoli dinoccolati e una stazza imponente). Se Paul Giamatti travalica ogni confine e disintegra qualsiasi metro di paragone, risultando impagabile in ognuna delle molteplici sfumature che è chiamato a rivestire/accompagnare, rinnovando un feeling da brividi lungo la schiena con il regista (vedi quella meraviglia assoluta che rimane - anche a distanza di tempo - Sideways), i suoi compagni di viaggio sono autentiche scoperte, che valgono un encomio aggiuntivo. Dominic Sessa, pescato letteralmente dal nulla, si segnala per come scardina i convenevoli di rito, mentre Da’Vine Joy Randolph è indimenticabile, rubando il cuore dalla prima all’ultima scena (potremmo tranquillamente definirla una novella Octavia Spencer).
In definitiva, The Holdovers è un film di cui si è perso lo stampino, un pezzo di straordinaria bravura, per scrittura (di buon senso ed esente da qualsivoglia svarione), direzione (oculata e al contempo ricca di dettagli) e interpretazioni (strabilianti), che va oltre le consuetudini, che si allontana dal caos dei nostri giorni, accessoriato per stimolare chi è stanco della solita solfa e per chi apprezza la sincerità, nonché nuance agrodolci che richiedono allo spettatore una partecipazione diretta. Un film ricolmo di gemme, più o meno nascoste, con significati importanti che suggeriscono una via da perseguire che va oltre il film stesso.
Tra tratti somatici che non lasciano nulla al caso e tempi concilianti a un’assimilazione a lunga scadenza, perle di saggezza ed esperienze sfortunate, rapporti a doppio filo e individualità che richiedono uno spazio dedicato, volti espressivi e parole incisive, repressioni forzose e la ricerca disperata di aria respirabile, discriminazioni e resistenze, corazze da scalfire e fragilità da scovare, soddisfazioni negate e cose giuste da fare, anche quando questo vuol dire dover rivedere daccapo qualsiasi prospettiva.
Appagante e colto, coerente e fragrante.
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