Regia di Sam Mendes vedi scheda film
Alla fine non basta una ingombrante Colman, incompiuta anche lei, altalenante nella sua schizofrenia come anche tutta la pellicola. L’omaggio al cinema ne esce parziale, smozzicato, quasi una scusa a far da collante a singoli siparietti. La malattia, il disagio, la solitudine, il razzismo, l’integrazione e l’intolleranza, l’egoismo umano, tanti tasselli impilati sullo sfondo di un multisala inizi anni 80, dove autentiche meraviglie come Momenti di gloria e Oltre il giardino riecheggiano appena in brevi frames, quando non solamente evocati.
La tenerezza del cinema, della sala del cinema, sottaciuta e quasi maltrattata fino alla fine, nascondendone maldestramente la magia per cucire un finale piacione e telefonatissimo. L’emozione smossa solo quando ho intravisto la foto di Tom Courtenay tra le decine di altre appese nella saletta proiezioni, il che è tutto dire. Troppi personaggi a margine, vestiti a misura da “non protagonisti”, che avrebbero dovuto narrarci un mondo che Mendes amerà pure, ma che disegna a sua personalissima misura.
Tanti hanno considerato un pregio i buchi di sceneggiatura, il lasciare a metà, il dire e non dire, i personaggi che appaiono e scompaiono, tutto ad evidenziare una evidente e sproporzionata storia d’amore che usa il cinema solo come alcova.
Lo abbiamo fatto un po’ tutti in realtà, ma ora, sinceramente, non può bastarmi.
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