Agli inizi degli anni '80, la Gran Bretagna, sprofondata nella crisi economica a causa di una recessione che pareva senza soluzione, e scossa civilmente da intolleranze razziali sempre più difficili da gestire e dalle conseguenze sempre più violente, sembra offrire ai cittadini, come unico svago e opportunità di distrazione, la magia del cinema.
Nella cittadina marittima di Margate, nell'anno di trionfo del film di Hugh Hudson, pluripremiato agli Oscar, Momenti di gloria, il cinema Empire vanta una delle sale più grandi e prestigiose del paese, anche se la struttura, che in realtà conta quattro sale, si è da tempo dovuta ridimensionare a sole due.
All'interno dello staff che manda avanti la struttura, conosciamo Hilary, una segretaria cinquantenne molto affabile e coscienziosa, che di fatto dirige tutta l'organizzazione.
O almeno così faceva, prima di sprofondare in un esaurimento da cui è riuscita solo a stento a riprendersi, e che l'ha costretta a ridimensionare le sue mansioni.
Tutte tranne quella di costituire da valvola di sfogo per le pulsioni sessuali del suo capo, l'azzimato Mr. Ellis, direttore della struttura, che la utilizza come proprio strumento di piacere nei dopo-lavoro in cui l'uomo la invita a fermarsi per prestazioni straordinarie.
L'assunzione nel cinema del giovane di colore Stephen, permette a Hilary di intrecciare una storia d'amicizia sincera, che poi si trasforma in una passione destinata a diventare una focosa e corrisposta storia d'amore, impossibile quando condivisa con la massima partecipazione da entrambi.
Ma la cattiveria dell'essenza umana è pronta a farsi valere anche e soprattutto nei confronti di quella ben poco tradizionale coppia clandestina.
Dopo l'emozionante 1917, il bravo Sam Mendes torna con un melodramma completamente intriso degli umori che animavano la propria gioventù di adolescente, per firmare una sorta di trattato d'amore sul cinema che potrebbe, almeno in linea di massima, ricordare l'afflato di un capostipite come Nuovo Cinema paradiso.
Certo il film si poggia in gran parte sulla figura tormentata e contraddittoria della incontrastata protagonista, per la quale Mendes ha la lungimiranza di scegliere come interprete la solita grandiosa Olivia Colman, che non è certo una sorpresa ritrovarla come sensazionale e determinante.
Ma anche il giovane Micheal Ward ha la faccia giusta ed in corretto approccio per risultare convincente, così come impeccabili appaiono le performance di contorno di attori di razza come Colin Firth e Toby Jones.
Quello che appare meno convincente è l'operazione celebrativa in sé in generale, che comunica un certo sentore di artefatto e di agiografico, al pari di quanto succedeva per il sin troppo lodato e celebrato Belfast di Kenneth Branagh.
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