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Io capitano

Regia di Matteo Garrone vedi scheda film

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La recensione su Io capitano

di Peppe Comune
8 stelle

Seydou (Seydou Sarr) è un giovane ragazzo senegalese che come molti suoi coetanei sparsi per il mondo coltiva il sogno di diventare un cantante di successo. Ma sa che ha meno possibilità di farcela rimanendo nel suo paese. Perciò, convinto dalle insistenze del cugino Moussa (Moustapha Fall), e contro la ferma volontà della madre (Doodou Sagna) che lo mette a conoscenza dei pericoli che si affrontano nell’intraprendere un viaggio verso l’Europa, decide di partire in direzione delle coste italiane. I due cugini non fuggono da nessuna guerra e potrebbero tranquillamente trovare un lavoro nel loro paese, ma intendono riscattarsi socialmente più che economicamente e per farlo senza vivere di rimpianti sono disposti ad affrontare la siccità del deserto, i centri di detenzione libici gestiti da mercanti di carne umana e l’umoralità del Mediterraneo. Insomma, un viaggio di formazione alla scoperta della parte più brutta del mondo. 

 

Seydou Sarr

Io capitano (2023): Seydou Sarr

 

“Io capitano” non è un film in soggettiva, ma è talmente continuo ed incisivo il modo con cui la regia di Matteo Garrone pedina il giovane Seydou che il suo sembra essere l’unico punto di vista possibile per descrivere il viaggio lungo la rotta che conduce in Italia. Un viaggio indirizzato dalla legittima speranza di ogni africano di migliorare la propria condizione di vita ma che di fatto si trasforma nel passaggio dentro quell’inferno in terra che caratterizza ormai regolarmente i flussi migratori provenienti dall’Africa verso l’Europa. 

La prospettiva adottata dallo sviluppo narrativo della storia, il modo in cui è girato “Io capitano”, ci rimandano a quel cinema capace di costringere a guardare i fatti tragici del mondo contemporaneo per quelli che sono. Matteo Garrone non rinuncia a fare dei due ragazzi il paradigma di un’umanità che nonostante tutto rimane fedele alla sua volontà di resistere, e neanche sottrae lo sviluppo della storia a trovare in inserti favolistici il modo di alleggerire la pervasiva presenza del senso di morte. Ma lo fa tenendosi sempre lontano dal trasformare la purezza dei sentimenti in retorica d’accatto, il susseguirsi di situazioni drammatiche in una narrazione ricattatoria venata di “buonismo” terzomondista. Detto altrimenti, piuttosto che darsi una veste documentaristica spogliando la messinscena di ogni artificio cinematografico, “Io capitano” mostra di voler essere un film che intende riflettere sulla verità del fenomeno migratorio non rinunciando alla finzione insita nel fare cinema. Un film che diventa politico per il semplice fatto di mettere la macchina da presa alla giusta distanza, come chi si mette ad osservare i fatti che accadono invitando gli altri a fare lo stesso per farsi un’idea più precisa.  

Il suo rimane uno sguardo profondamente etico, teso ad offrire una panoramica sulle palesi contraddizioni del mondo nel mentre si fissa l'attenzione su uno qualsiasi dei suoi figli sfortunati, ad evocare l'indifferenza che l’occidente ricco può essere capace di produrre mentre è sulle inconsapevoli vittime delle lancinanti disparità economiche che si concentra la macchina da presa. Il fuoricampo e quindi parte integrante della narrazione e trova il suo implicito peso narrativo nel rapporto dialettico che intercorre tra due forme tanto distinte quanto complementari di responsabilità. 

Da un lato, c'è quella di Seydou e Moussa, due ragazzi che non fuggono dalla povertà lancinante o da un paese in guerra, ma che semplicemente hanno scelto di seguire la voce dei propri sogni e quindi andare laddove potrebbero avere più opportunità di esaudirli. E non importa se bisogna attraversare il deserto, guardare in faccia i mercanti di carne umana o se una volta arrivati in Italia le cose non risultano essere così come si era sperato. Perché, per questi ragazzi che sognano e sperano come ogni loro coetaneo, il desiderio di non vivere di rimpianti è più forte dei rischi che si sa di dover correre. 

Dall’altro lato c’è quella che fa da sfondo alla storia che vediamo, quella molto familiare nell'occidente civilizzato che abitiamo noi tutti : la responsabilità di giudicare quelle vicende umane come cose che non ci appartengono e la cui lontananza serve a tenere a riparo le coscienze da tutte le cattiverie che nel popolarle ne indirizzano il destino. 

Per Matteo Garrone è una semplice questione di giustizia tra uomini e donne di paesi diversi che abitano lo stesso pianeta. Una giustizia che nel film trova qualche riparo nell'immaginazione che non spegne del tutto la speranza o nella solidarietà tra gli ultimi che nello spirito di sopravvivenza fa sopravvivere anche l'umanità. Ma soccombe inevitabilmente sotto i colpi di un modello economico che produce aspettative consumistiche adattabili a chiunque ma che sono raggiungibili con molta più facilità solo da chi è più vicino al centro del sistema economico globale. 

Infatti, “Io capitano” non fa altro che documentare questo viaggio verso il centro del mondo, una moderna Odissea che Seydou intraprende carico di buone intenzioni. Spera di raggiungere la sua Itaca, ma intanto si confronta con una sorta di viaggio agli inferi in più tappe che si configura come un esame irto di pericoli che occore necessariamente superare se si vuole varcare la porta del mondo “civile” e conquistare l’agognato riscatto sociale. Un viaggio che rafforza il senso di ingiustizia insito in un mondo che produce vite di scarto da sacrificare per nome e per conto di un modello economico da preservare.  

Si è letto che il film è ispirato ad una storia vera. Ma poco importa sapere se il viaggio dei due ragazzi che Garrone ha messo su schermo sia vero o falso, perché vere sono certamente le innumerevoli morti in mare consegnateci dalla cronaca giornalistica dedicata ai flussi migratori e vera è l'esistenza dei centri di detenzione gestiti da mercati di carne umana. Come vero e ciò che vogliono rappresentare attraverso la finzione cinematografica gli occhi di Seydou il capitano quando, alla contentezza di aver avvistato la terraferma, fanno eseguire il disincanto di chi sa che il suo calvario esistenziale non si è affatto concluso. Bravo Matteo Garrone ad aver raccontato la verità inconfutabile di tante persone costrette a fuggire dalle proprie terre per elemosinare almeno uno spicchio di "posto al sole". Persone che guardano in ogni istante la morte in faccia prima di poter consigliare alla fine del loro tormentato viaggio qualche briciolo di umana speranza. Film bello è necessario. 

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