Regia di Matteo Garrone vedi scheda film
I senegalesi Moussa e Seydou partono da Dakar alla volta dell’Italia, fuggendo per spirito adolescenziale ribelle dalle mediocri condizioni di vita a casa loro. Abbandonano dietro di sé povertà e quotidiano faticoso, ma anche famiglia e tradizioni, illudendosi che il viaggio sarà una passeggiata. Non sarà così, ma Garrone – diversamente da molti altri registi che potrebbero lavorare sullo stesso argomento – non ha interesse ad accanirsi sui personaggi, le cui peripezie quasi picaresche (si legga ad alta voce il “quasi”) vengono lasciate al fuoricampo quando particolarmente drammatiche. I personaggi prendono proiettili, vengono torturati, soffrono la fame, ma il respiro del film è più ampio della singola scena di sofferenza, del singolo momento di panico. Il racconto procede come un flusso ininterrotto, con un ampio uso di dissolvenze incrociate e accompagnamenti musicali che rendono il montaggio un certosino lavoro di continuo ed efficace raccordo.
Ciò che d’altra parte si può imputare a Io capitano è l’eccesso di prudenza. A partire dalla scelta di due protagonisti umanamente inattaccabili fino alla scelta di dividere idealmente a metà la loro esperienza fra il mostrabile e l’immostrabile, Garrone sembra non voler scontentare nessuno. Non vittimizza i suoi protagonisti ma taglia di netto il film al momento decisivo per glissare sul vero tema sotterraneo (l’accoglienza), che lo renderebbe il film attuale e contemporaneo che non è. Non spinge sul favolistico salvo in due o tre scene probabilmente per evitare il cattivo gusto, dando però la sensazione di un film che scivola via senza sussulti e con enfasi anonima. Non prende davvero la strada del picaresco (si rilegga il “quasi” di poc’anzi) che avrebbe dato una via preferenziale all’identificazione, o magari una manomissione più efficace e cruenta dell’illusione di avventura che percepiscono i due ragazzi, o addirittura una nuova narrazione sul tema del viaggio dei migranti di cui ci si riempie la bocca senza sapere di che si tratta. Garrone non esagera in (leggasi pure “non prende”) nessuna direzione, e sembra che la sua storia sia la media statistica ponderata di tutte le testimonianze sul tema, portate in un ideale linea di centro, senza deviazioni e senza incoerenze. Tanto è media che appare distaccato anche il percorso di presa di responsabilità del protagonista, che si dà il caso che durante il viaggio debba pure imparare a crescere e diventare uomo. Come in un bildungsroman che solo per caso si allinea con uno dei più grandi problemi del contemporaneo.
Un film che non sta né qui né lì né da nessuna parte, su un filo di prudenza non schierata che darebbe nutrimento a qualsiasi fazione polarizzata sul tema. Un circolo vizioso che evita la retorica ma anche l’analisi, e che ha troppa paura del cattivo gusto per essere di buon gusto. Né immersivo né distaccato, piatto come la carta geografica che apre e chiude il film. Sulla strada verso un equilibrio insapore che anche nel cinema italiano più contemporaneo (si pensi anche solo agli Anni Novanta di Gianni Amelio) si era riuscito a risolvere con cuore, lucidità e parsimonia.
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Non ho (ancora) visto il film, ma dal suo commento sembra che lei disprezzi l'enfasi, la retorica, il picaresco, il favolistico, il cattivo gusto, ma in fondo desidererebbe che Garrone ce li avesse messi. No, in effetti capisco cosa lei vuole dire, ma vedo anche il vizio di certi critici di dire al regista come doveva fare il film.
Avrei desiderato uno sguardo, uno di questi che ha elencato o qualche altro. Non certo una successione indecisa di cartoline, che con lo spettacolo esteriore omette e non dice per pura prudenza.
Io devo aver visto un altro film, perché sono stato in tensione tutto il film, e così tutta la sala in cui eravamo. Inoltre c'è l'ulteriore valore aggiunto che è l'uso dei sottotitoli; non ci ha propinato il solito doppiaggio in cui tutti parlano in italiano, sia che parlino wolof, o francese, o arabo. E la musica ha le stesse sonorità di quelle che si potevano ascoltare in Mali al "Festival au desert"
Concordo sul fatto che ha visto un altro film. Infatti questo è tutto in italiano.
Ne hanno fatto una versione doppiata in italiano? Peccato!
Anche a me prima di IO CAPITANO è tornato alla mente FUOCOAMMARE, così all’uscita dalla sala sono stato colto da sentimenti contrasti che sei riuscito a cogliere con le tue parole. Il film di Garrone rientra nella lista di quelli, più che mai, “necessari”, i cui protagonisti sono la categoria di migranti (quelli “economici”) che tanto fanno incazzare il governo attuale (maschi neri in gran forma con il telefonino, seppur sprovvisti di air max ai piedi) e non solo, in virtù degli accordi sottoscritti con la Libia da Minniti. Mi domando se non si potesse evitare la scena della tortura, in virtù della buona sorte che contraddistingue la vicenda narrata: il protagonista, grazie alla protezione di un connazionale, riesce a raggiungere Tripoli perché il loro schiavista paga loro il viaggio dopo aver realizzato una splendida fontana in mezzo al deserto, ricongiungendosi nella capitale con il cugino, che porterà in salvo guidando una barca che non avrà avarie al motore, il cui carburante sarà sufficiente per solcare il mare dalle onde indulgenti. Durante la traversata chi era sottocoperta non soffocherà e il neonato giungerà con la madre in salvo. Tutti costoro verranno poi rimpatriati? Questa la domanda che tu giustamente poni. Probabile però che le mie considerazioni siano vane perché il regista ha intenzionalmente voluto utilizzare i toni di una favola. Per me IO CAPITANO rimane tale, una considerazione che non vuole essere una critica ma una semplice constatazione e allora è consequenziale che non possa esserci favola senza lieto fine. La realtà però è più simile alla tragedia.
No. "Io capitano" non è una favola, magari lo fosse! E' totale adesione alla realtà: e chi come il sottoscritto lavora con costoro da anni - se ti occorre, posso inviarti mio film - può garantirti che Garrone non ha smorzato nessuno dei toni. Tutti i ragazzi arrivano con segni di tortura; li puoi vedere sui volti, a lato degli occhi; sulla schiena; nelle pieghe della bocca. Io capitano è un racconto di formazione e come tale va visto: scevri da quel giudizio che riferisce dei migranti, perché "ciascuno deve essere libero di esplorare e non per ragioni economiche " (Garrone, conferenza stampa a Venezia) e, aggiungo io, non essere considerato un illegale. Come tutti i racconti di formazione, reca, attraverso l'onirico, quei segni di favola, che sono anche i sogni (la mamma, che molti comunque non rivedranno più) e nell'ottica del mito vi corrisponde anche la ricerca di un approdo. Come un'Odissea, semplicemente moderna. Un caro saluto, Mauriz
Nell'Odissea il protagonista torna nella sua patria mentre i migranti debbono lasciarla e una volta giunti sulla terra ferma se i lager, le varie guardie costiere o il Mediterraneo stesso (senza dimenticare muri, filo spinato o foreste a protezione di altri confini) non stati in grado di compiere il respingimento, li attende una nuova reclusione, non prima di aver atteso il pos. Può essere però che io mi sia concentrato sul dito e non sulla Luna. Saluti in attesa di avere info sul tuo film. Grazie.
PS un'ultima considerazione e poi non vi tedio più: ho ripensato all'inserto poetico successivo alla scena in cui la donna muore nel deserto e mi domando perché il regista non abbia pensato ad analogo espediente dopo aver mostrato le torture
Un film inutile e paraculo, come lo è stato Fuocoammare.
Hai fatto bene a ricordare Amelio,questo in fondo è stato incensato oltre ogni limite.
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