Regia di Andrea Segre vedi scheda film
Po è un documentario come se ne facevano una volta, De Seta, Pasolini per citarne due, guarda al presente chiedendosi cosa c’è alle sue spalle e cosa è rimasto che valesse la pena di conservare.
La televisione italiana non era ancora nata, in quel grigio novembre del 1951.
C’era il cinema e c’era l’Istituto Luce. Tutto quello che vediamo della storia del Polesine, dell’alluvione catastrofica e della miseria endemica, lo sappiamo da immagini sgranate, in bianco e nero, poche e povere, di una sobrietà che oggi si fa fatica a credere possibile, presi nella morsa delle immagini a getto continuo, sfornate 24 h su 24 senza posa, una galassia frastornante di parole, pseudo informazioni, assenza di silenzio, di sguardo autentico e di pietà che non sia già preconfezionata.
Nel ’43 Gente del Po era stato l’esordio cinematografico di Antonioni, pubblicato fra il 1945 e il 1947. L’opera prima del regista tornò di attualità in seguito al lancio di agenzia dell’11 settembre 2014:
(ANSA) – ROMA, 11 SET –
“Antonioni e i luoghi della sua infanzia lungo il fiume Po. Tre mesi fa la nipote Elisabetta, che ha fondato l’Associazione Michelangelo Antonioni, ha ritrovato tra le carte del padre foto mai viste prima, scattate dal regista ferrarese alla fine degli anni ’30 quando pensava ad un film o ad un documentario sul Po e alla vita dura dei suoi abitanti.”
Uno sguardo profetico, come sempre quello dei grandi artisti, “… visi seri, silenziosi. Visi segnati oltre la loro età, una vita di gesti silenziosi, di doveri assolti col capo sempre chino, una vita uguale, senza speranza.
Il fiume è la vita, ma è grande e minaccioso e la vita della gente del Po può diventare ancora più desolata…
Nei giorni di burrasca bisogna correre alle capanne in pericolo, mentre il vento sradica i tetti di paglia e l’alta marea cresce. Le madri raccolgono i piccoli dal fango, si chiudono dentro i tuguri, il cielo cade sul miserabile villaggio come una punizione divina. In breve il villaggio è invaso dall’acqua, acqua dolce del Po, acqua amara dell’Adriatico. La ripresa finale è d’acqua e cielo, rantolo di tuono e orizzonte immenso. L’uomo è scomparso, resta il silenzio del deserto.”
C’era stato anche Luchino Visconti da quelle parti con Ossessione, Lattuada e Rossellini avevano precorso i tempi con Il mulino del Po e Paisà, quei set cinematografici aprirono molte strade al cinema e l’Italia fu vista com’era, ed era davvero povera sul Po in quel triste dopoguerra.
Le ragazze partivano per le risaie e tornavano sfatte e invecchiate, sui camion del ritorno cantavano le canzoni delle mondine:
Sciur parùn da li beli baghe bianche…
Amore mio non piangere se sono consumata
È stata la risaia che mi ha rovinata…
Gli uomini erano pescatori o contadini al servizio di latifondisti che lasciavano solo il necessario per mangiare.
Era il 14 novembre del ’51, la guerra era finita da sei anni, in Polesine lo sforzo di rinascita era più duro che altrove.
L’alta marea dell’Adriatico, argini che non reggevano, pioggia che veniva giù il cielo, forti venti di scirocco e mancanza di comunicazioni, strade di fango e terra, tutto collaborò e il grande fiume tracimò nei territori di Canaro e Occhiobello.
Due terzi della portata del Po lasciarono l’alveo e si riversarono su campagne e paesi, acqua e fango sommersero tutto, centomila ettari furono allagati, più della metà dell’intero Polesine, che coincide quasi con l’intera provincia di Rovigo.
Fu il primo disastro mediatico del Paese.
C’erano la radio, i giornali e i giornalisti, tanti, le cronache non mancarono ma mancava totalmente la prevenzione nessuno poteva avvisare i residenti della catastrofe imminente, la comunicazione era pressoché assente, pochi avevano in casa una radio
I soccorritori (moltissimi i volontari) contarono i morti, circa cento, di cui 83 nel cosiddetto “camion della morte”, l’episodio più doloroso, e aiutarono gli sfollati, poco meno di 200 mila.
La popolazione del Polesine calò del 22%.
A settanta anni di distanza Andrea Segre e Gian Antonio Stella tornano sui posti, mettono insieme passato e presente, danno voce a qualche polesano che ricorda.
“La miseria non è mai bella da ricordare” dice il primo intervistato
Uomini e donne, ora anziani, erano bambini allora, li vediamo ammucchiati e cenciosi sui camion della solidarietà.
Il contraccolpo mediatico ci fu, di Polesine si parlò a lungo e il nome entrò nella memoria collettiva, aiuti arrivarono anche dall’Unione Sovietica, i partiti, rossi e bianchi, fecero a gara per essere in prima linea in quella terra di confine tra Romagna rossa e Veneto bianco.
Ma la miseria rimase con l’acqua sporca, putrida, che non si ritirava, per mesi, e quando lo fece mise a nudo macerie, baracche appiattite nel fango, nulla in piedi a ricordare passati splendori. Si viveva in baracche di fango e paglia, cosa poteva restare in piedi dopo un’alluvione?
Questo va detto, di terremoti e alluvioni siamo esperti, ma che non resti traccia di una vita no, è impensabile, ed è quello che accadde allora.
E dunque serve la memoria, c’è un Cinema del Po (una grande mostra a Rovigo, Palazzo Roverella, qualche anno fa fece il punto su quel cinema che tanto ha dato) che rintraccia e racconta, Po di Segre e Stella è l’ultimo in ordine di tempo,.
Segre ci ha abituato ormai al suo sguardo profondo su terre e vite marginali (Pianeta in mare, Molecole, Welcome Venice), di Gian Antonio Stella conosciamo l’impegno e l’unicità nel mondo del giornalismo attivo e d’inchiesta.
Po è un documentario come se ne facevano una volta, De Seta, Pasolini per citarne due, guarda al presente chiedendosi cosa c’è alle sue spalle e cosa è rimasto che valesse la pena di conservare.
Quei polesani che mette in scena sono rimasti o sono tornati dal grande esodo, quando, finita la solidarietà dei primi tempi, l’Italia cominciò a provare quel fastidio che oggi è riservato ad africani e mediorientali che arrivano a rompere i nostri equilibri, con l’aggravante che quei duecentomila miserabili erano dello stesso Paese.
Ma di quella miseria sopravvissuta intatta alla guerra (perché la guerra nulla può contro la miseria) l’Italia voleva dimenticarsi, girarsi da un’altra parte. Lo avrebbe fatto anche se ci fosse stata la televisione a documentare, ma così riuscì meglio e il Polesine fu dimenticato ben presto.
“Mal visti, additati per la loro povertà, per il loro dialetto di campagna, per le loro mani spaccate dalla terra, i loro occhi segnati dalla fame.
Vivono l’onta della loro tragedia, prima oggetti passivi di pietà mediatica e politica, e subito dopo nemici in casa, portatori di problemi e fantasmi da cui il Paese aveva deciso di doversi liberare I profughi del grande fiume, tra loro centinaia di bambini, strappati alle famiglie durante la fuga e assegnati a ospedali e istituti religiosi ancora ottocenteschi nelle forme e nei modi. Un’epopea popolare che ha segnato la vita di migliaia di persone, per poi cadere nell’oblio tipico delle vergogne che preferiamo dimenticare.=
Così parlano gli autori e questo pensiamo guardando lo schermo e ascoltando Gualtiero Bertelli, la voce di quelle terre, che sui titoli di coda canta Aqua con la Compagnia delle Acque.
Me la sentivo, Nina, sui ossi sta aqua freda che adesso vien su.
Me la spetavo giorno par giorno come un pegno, na cambial da pagar.
I xe giorni duri sti qua de novembre, te par che tuto te vogia magnar.
El mar se ingrosa, el vento no'l smete e sta piova no te lassa dormir.
Ti pensi note e giorno “eco adesso la riva”, ti cori note e giorno a salvar ste quatro strasse, pronto note e giorno che te par quasi na guera na guera sensa fine che no te lassa sperar.
E po de colpo, amor, ste sirene e fora vento e scuro e piova e te ritorna na vecia paura che ti credevi de lassar vint'ani fa.
Cori che l'aqua vien su dal gabineto, salvemo almanco sti quatro schei de roba.
Varda se i fioi xeli ancora in leto, lassa che i dorma che no i veda sta miseria.
Ti tiri su tuto, più presto de na gara, e po ti resti fermo sula porta a spetar, ora par ora ti controli sul muro se la cresse, se la cala se la resta, se la va.
E varda sta zente che passa par strada, i ciapa tuto come un bruto destin.
Ti te ricordi tre ani fa i sigava adesso par quasi che i se staga a divertir.
Co sta scusa in tre ani, in tre volte, anca i più duri i se ga abituà.
El mar ne copa e nissun no fa gnente, ansi me par che i ghe daga na man.
I parla de salvarla sta tera sfortunada de tirar su tuto, de farghe na diga e intanto i scava po intèra se va sempre pèso ma gha basta parlar.
“Dame li stivali Nina, vado via se ti ga bisogno de mi so al bar”
Vado a farme la solita partia, ti no pensarghe, prepara da magnar.
Foto: Immagini storiche dell’alluvione del Polesine del 1951, Archivio della Memoria di San Bellino, Rovigo.
www.paoladigiuseppe.it
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