Regia di Kristin Gore, Damian Kulash vedi scheda film
Seguendo dei cicli che si ripetono condividendo un comune denominatore, le follie collettive si susseguono a ritmo incessante e senza sosta, come in una scacchiera, qualsiasi coordinata composta da un periodo recente e un luogo ne annovera almeno una a referto. Fenomeni di costume che compaiono dal nulla ex abrupto, mode/fissazioni che prendono piede rapidamente e, allo stesso modo, si dileguano/svaniscono nel nulla, vengono dimenticate, rimosse lasciando sul campo degli strascichi, talvolta sanguinosi.
Così, tra successi mirabolanti e debacle eclatanti, manie fuori controllo e bolle speculative, ossessioni condivise e crash improvvisi, ne abbiamo viste/vissute di cotte e di crude, con tanti presunti geni della finanza/vendita passati dalle stelle alle stalle, dall’idolatria assoluta al dimenticatoio, con quadri destinati ad appassire.
The Beanie Bubble ne racconta una tra le più incredibili e, se teniamo conto che l’oggetto della contesa non erano altro che dei peluche, assurde di sempre, approfittando dell’occasione soprattutto per concentrarsi su altro, distinguendosi inoltre per delle scelte dispositive che forniscono una conformazione sui generis, una centrifuga che ingloba parecchi argomenti e risorse cinematografiche.
Stati Uniti, 1983. Quando Ty Warner (Zach Galifianakis – Una notte da leoni, Parto col folle) e Robbie Jones (Elizabeth Banks – Hunger games, Love and mercy) danno vita alla loro attività di peluche, cercando di uscire da un insoddisfacente anonimato, non potevano neanche lontanamente immaginarsi il successo che avrebbero conseguito da lì a breve.
Una decina di anni dopo, quando tutto sembra procedere a gonfie vele, entra in azienda la giovanissima Maya Kumar (Geraldine Viswanathan – Miracle workers, Giù le mani dalle nostre figlie), che saprà valorizzare i nuovi strumenti di promozione, mentre nella vita privata Ty intraprende una relazione con Sheila Harper (Sarah Snook – Succession, Predestination), che sembra destinata a culminare in una vita di felicità.
Queste tre donne scopriranno sulla loro pelle che non è tutto oro quello che luccica, tanto da essere obbligate a fare delle scelte forti per non finire stritolare dallo smisurato e piramidale ego di Ty.
Tratto dal libro The great Beanie baby bubble: mass delusion and the dark side of cute scritto da Zac Bissonnette, The Beanie Bubble segna l’esordio alla regia di Kristin Gore e Damian Kulash jr., che nella vita reale formano una coppia affiatata e che qui mettono al servizio del film le relative - e non indifferenti - esperienze precedentemente maturate.
Dunque, ripercorrendo la storia di un successo miliardario, oggi impossibile da comprendere se non per le linee guida generali, scelgono di non accontentarsi di una riproduzione calligrafica e ordinaria, impostando una costruzione cronologicamente sfalsata e scalpitante, artificiosa e arruffata, che da una parte risulta faticosa ma dall’altra è più logica/pertinente di quanto non sembri in prima battuta e consente di capire quale sia l’effettivo cuore pulsante dell’intera operazione.
Infatti, così facendo prende per mano contemporaneamente le tre donne che s’interfacciano negli anni con Ty, seguendole nei loro archi narrativi in un back to back che discetta di grandi speranze e di sogni infranti, di mercificazione e di affermazione delle qualità umane, di prevaricazione e di catene che devono essere spezzate per lasciarsi tutto alle spalle e realizzarsi.
Di conseguenza, emergono tre percorsi tracciati e altrettanti ritratti efficaci, personalità che vanno in contrasto con la figura dell’uomo solo al comando, il classico megalomane che dall’alto della sua torre d’avorio si crede intoccabile e quindi in diritto di comportarsi – sempre e comunque, senza mai fare un reale esame di coscienza o un passo indietro - come gli pare, borioso in apparenza sebbene sia schiacciato dalle sue debolezze, da un ego vampiresco che miete vittorie ma anche vittime.
Quindi, all’interno di un ping pong che prende la palla al balzo e viaggia a corrente alternata senza ripiegare in un codice binario, che svaria su più fronti e grattugia il sogno americano, diventano determinanti le interpretazioni. Se Zach Galifianakis scompare nel personaggio - a tutti gli effetti è quasi irriconoscibile - tra istrionismi vari, fornendo una prova costruttiva, Sarah Snook conferma di essere a suo agio nel dramma così come nella commedia, Elizabeth Banks offre una buona dose di combattività, mentre Geraldine Viswanathan aggiunge la freschezza che serve per completare il quadro.
In sintesi, The Beanie Bubble ha un artwork dai tratti caratteristici evidenti e sostanziali, variopinti e cervellotici, dai quali non si scappa. Ripercorre stagioni della cultura americana, ad esempio con l’avvento di internet e subito dopo di Ebay, dispone di scene iconiche (vedi quando un carico di peluche finisce riversato in strada per poi essere accaparrato selvaggiamente come se si trattasse di banconote di grosso taglio) e mette in moto continui capovolgimenti, con un’andatura sostenuta, tanto da comunicare, anche se spesso tira dritto, e cromatismi accesi.
Tra ciò che è peculiare alla vicenda e quanto assume una fisionomia universale, ambizioni e tradimenti, biglietti vincenti e lune di miele a tempo determinato, amore e odio, luce e oscurità, onde da cavalcare e dirupi, sfruttamento e riscatto, attrazione e repulsione, valori calpestati e isterie di massa, frustate e omaggi nei confronti di chi ha avuto il coraggio di uscire da un vicolo cieco.
Appariscente e vulnerabile, infaticabile e dinoccolato.
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