Regia di Fritz Lang vedi scheda film
L’archetipo è ovviamente la storia di Barbablù: un uomo che uccide le sue mogli, una stanza chiusa da non aprire mai, una donna che viola la proibizione. Nelle mani di Lang diventa, come ci si può aspettare, una meditazione sulla natura umana e la sua tendenza al male (“siamo tutti figli di Caino”, afferma il protagonista): pur non avendo la terribile profondità di La donna del ritratto, è però ben più di un semplice thriller. Redgrave non è un assassino nato, piuttosto “un uomo ossessionato dall’idea del crimine” (Mereghetti); la sua ossessione nasce da un trauma infantile ed è legata a un oggetto preciso, i fiori di lillà, che alimentano in lui un riflesso pavloviano a cui può sottrarsi solo allontanandosi dalla sua potenziale vittima (quindi non è un malvagio per natura, ma al contrario uno che cerca razionalmente di resistere ai propri impulsi omicidi). Risanato il trauma, l’uomo guarisce e il film può avviarsi a un lieto fine che, appunto come in La donna del ritratto, sembra pensato unicamente per rassicurare il pubblico ma non cancella quello che sarebbe potuto accadere (solo nella scena precedente, Redgrave era pronto a strangolare la Bennett). Il referente più diretto è Rebecca (1940) di Hitchcock, con cui i punti di contatto sono indiscutibili (la prima moglie, l’incendio finale a opera della segretaria); aggiungo però che il film mi ricorda molto Estasi di un delitto (1955) di Buñuel, anch’esso con un assassino che resta solo potenziale e con un trauma infantile che viene superato.
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