Regia di Pappi Corsicato vedi scheda film
Corsicato è uno dei registi italiani da difendere, a mio parere. Della generazione venuta fuori negli anni 90, è stato uno dei pochi a non adagiarsi nelle secche di un cinemino dispensatore di luoghi comuni e soluzioni stilistiche di retroguardia. I film che ha fatto possono essere più o meno riusciti, ma non è questo il punto. Corsicato è un regista che ama osare, dirigere il proprio sguardo oltre i ristretti confini di una poetica (ed estetica) corriva. Spesso guarda al modello di Almodovar (“Il seme della discordia”), di cui è stato anche assistente. In “Chimera”, invece, uno dei suoi titoli più controversi, il referente (forse involontario) pare quasi essere quello del Lynch di “Strade Perdute”. Il film si colloca, sin dall’incipit che prima fa il verso ai melo hollywoodiani e poi introduce un personaggio-demiurgo (il prestigiatore/strozzino/narratore interno), in una dimensione squisitamente ludica e meta-filmica. Si tratta forse del primo film autenticamente post-moderno della nostra cinematografia (con imbarazzante ritardo sui tempi), assieme al coevo “L’uomo in più” di Sorrentino (che, al di là del giudizio controverso sulla consistenza della sua opera, si può tranquillamente qualificare come autore post-moderno per eccellenza del nostro cinema contemporaneo, nonché erede a distanza, per quanto manierista, di quella “scuola napoletana” di cui lo stesso Corsicato è stato ed è tuttora fra i maggiori esponenti). “Chimera” è un gioco di ruolo, dove una coppia in crisi mette in scena una sorta di mascherata, per cercare di rompere l’illusione del proprio reciproco amore. Tale processo di sventramento della menzogna e di difficoltosa rivelazione della propria anima nuda, regolato a distanza dal prestigiatore di cui sopra, si articola secondo un canone filmico che mischia sincreticamente i generi porno-soft, noir, melodramma, persino musical. Tale mix stilistico, unito al graduale scivolamento dalla dimensione grottesca a quella tragica, nonché corroborato da abbondanti dosi di spavaldo erotismo, riconduce in effetti al grande David Lynch; nondimeno, la direzione straniante dei dialoghi e l’utilizzo “onirico” dei personaggi (che mutano luoghi e ruoli secondo logiche irrazionali, e sono soliti ripetere le stesse battute in contesti differenti, come se si trattasse di prove di recitazione), così come alcune specifiche situazioni (le esplosioni di violenza, il teatrino all’aperto, la festa a casa dello strozzino etc…) paiono confermare tale ascendente. Certo, siamo molto lontani dalla potenza espressiva, dalla profondità e lucidità del grande regista del Montana. Corsicato spesso perde la bussola, affidandosi alla rozza procacità e agli occhi di ghiaccio di una memorabile Iaia Forte, nonché a qualche ottima trovata visiva (i volti moltiplicati su fondo nero; certi arredamenti naif); e talora tende a compiacersi dei suoi continui spiazzamenti. Al netto di tali evidenti cali di intensità e di certe soluzioni fin troppo pretenziose, “Chimera” resta un bizzarro e talora gustoso saggio sulla labilità e falsificabilità dei propri sentimenti, del proprio desiderio sessuale, persino della propria identità: una sbilenca riflessione su personalità che faticano ad uscire dai personaggi, su corpi neutralizzati dall’immagine e su volti corrotti da invisibili maschere. Un cinema che riflette ineluttabilmente su se stesso, con un testo proteiforme che pare mutare e ricomporsi di sequenza in sequenza. Nel corso degli anni Zero, il francese Ozon avrebbe proposto una simile ricetta con risultati molto più riusciti ed accattivanti. Ma Ozon ha anche avuto modo di girare film con più frequenza, affinando il proprio stile e crescendo di opera in opera; ai cineasti di talento italiani, invece, raramente vengono concesse tali opportunità.
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